di Enrico Clementi – Educatore, Formatore, Orientatore e trainer dell’esperienza in ambiente sportivo (sci alpino)
La rigida divisione tra processi percettivi, motori e cognitivi è in grande misura artificiale. Non solo la percezione sembra ancorata alle dinamiche dell’azione, diventando più composita di quanto si ritenesse in passato, ma il cervello che agisce è anche e soprattutto un cervello che comprende.
– C. Sinigaglia et al., Specchi nel cervello, 2008
Negli anni Settanta, basando le sue idee sul lavoro del fisiologo russo Nikolaj Bernastein, Karl Pribram (I linguaggi del cervello. Introduzione alla neuropsicologia) ha postulato un assioma che oggi è certo, e cioè che al movimento occorre qualche cosa di più dei soli impulsi ai muscoli.
Bernastein, a partire dalla complessità di un movimento realizzato da un corpo dotato di muscoli agonisti e antagonisti, articolazioni e leve, aveva già proposto che i movimenti non fossero generati da elementi atomistici in combinazione tra loro. Dovevano cioè esserci quelle che egli chiamò “sinergie”, in cui uno schema motorio viene prodotto a un livello superiore del sistema nervoso, in cui muscoli, leve, articolazioni, si integrano e coordinano in un’azione coerente.
Secondo questa ipotesi, poiché la coerenza di un’azione non è controllata a livello apicale dalla corteccia motoria, la sinergia implica l’articolazione spaziale del movimento e quindi una topologia.
Pribram, coniando la locuzione “immagine della realizzazione”, ha articolato l’ipotesi suddetta affermando che una sinergia comporta, oltre alla forma dell’azione, anche un’intenzione, una finalità.
Il fatto che vi sia una forma dell’azione e che l’azione sia finalizzata, può o potrebbe sembrarci banale; ma non è assolutamente banale il fatto che nel sistema nervoso viene in qualche modo “rappresentato” il complesso: quella che Pribram chiama “immagine della realizzazione”, è una funzione che implica un processo analogo a quello del modo in cui si forma un’immagine visiva, ma che, oltre a quello spaziale, include l’elemento temporale.
Non mi soffermo in questo articolo sulle esperienze legate al movimento, alla sua genesi e alla sua realizzazione, di Spazio e di Tempo. Va detto però che Spazio e Tempo sarebbero difficilmente percepibili, o non lo sarebbero affatto, in assenza di movimento. Cfr. H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi (1905)
[…]
Questa premessa, alquanto densa – invito il lettore a fare quello che siamo ormai poco avvezzi a fare: leggere lentamente, più di una volta e in modo critico, operando associazioni, estensioni e verificando analogie – ha molte conseguenze sul piano epistemologico, metodologico, applicativo.
Nessun aspetto del processo di vita, da quello cellulare alle interazioni complesse di un corpo in movimento con il contesto in cui agisce (pensiamo a uno sport, soggetto a variabili situazionali e disciplinato da regole), è concepibile in assenza di movimento. Quindi, modificando gli schemi di movimento modificheremo il nostro sistema di concettualizzazione e conoscenza.
Per chi si occupa di educazione in ambiente sportivo o per un mental coach, ancora di più per uno psicologo dello sport o della prestazione umana, la precedente è un’affermazione nulla affatto scontata; infatti, ancorché diffuse modalità e tecniche d’intervento psicocorporee (dove comunque la psiche, precede sempre il corporeo), si intenderebbe agire sugli schemi di concettualizzazione e conoscenza, per modificare gli schemi di movimento e quindi i comportamenti appresi.
Dissentiamo – sul piano conoscitivo e fattuale – da questa impostazione, che potremmo designare come latamente “accademica” o “scolare”, e affermiamo che:
- il pensiero coinvolge i sensi, i sentimenti, l’azione;
- il pensiero e la verbalizzazione, se non radicati nei sensi e nell’esperienza del corpo, sono infruttuosi, ossia, non producono cambiamento – ritenendo il “cambiamento” la componente empirica dell’educazione: non si dà educazione, senza cambiamento.
Come esseri umani siamo assetati di “opinioni corrette” e “idee giuste”; per quanto, in modo paradossale, attratti dalla ricerca di autonomia e idee innovative.
D’altro canto, i problemi umani sono sovente complessi, e quelli legati alla prestazione umana, sportiva o d’altro genere, lo sono ulteriormente, e il pensiero lineare di causa-effetto ha solo una validità parziale.
Questo significa, rispetto alle competenze motorie e alle discipline sportive, che è importante pensare “fuori dagli schemi”, e discostarsi dall’idea di una dotazione senso motoria intesa come (essa sola) responsabile delle azioni: sovente, nello sport, come in altri contesti di vita, il corpo fa diversamente da quello che la mente immagina, progetta o desidera, sia in eccesso che in difetto.
I sistemi viventi sono molto articolati e complessi e, da ultimo, imprevedibili. Ma nello stesso tempo sono ragionevolmente prevedibili e regolari nelle modalità d’azione e interazione.
Perché possa verificarsi l’apprendimento, deve esserci un ambiente in cui, attraverso gli strumenti di azione e interazione, il sistema nervoso, il corpo e la cognizione aumentano il loro grado di competenza in relazione ad alcuni bisogni fondamentali, da quelli di base (più fisici) ad altri “evoluti”: sicurezza, appartenenza, stima, realizzazione di sé ecc.
[…]
È recente la convergenza di epistemologi e scienziati sulla valorizzazione del movimento e del “radicamento nel corpo” o embodiment; e l’intelligenza è stata riscoperta come una caratteristica di tutte le cose viventi, comprese le più semplici.
Mi rifaccio qui alla resa dei termini embodiment/embodied nella traduzione italiana (Astrolabio-Ubaldini, Roma 2023) di The Embodied Mind di F. Varela, E. Thompson, E. Rosch.
Grazie ad una comprensione di questa natura, secondo la quale gli aspetti della cognizione (idee, pensieri, concetti, categorie) emergerebbero da aspetti del corpo (percezioni e intuizioni sottostanti alle capacità di movimento, attività e interazioni con l’ambiente, presupposti ontologici sulla realtà integrati nel nostro e corpo e nel nostro cervello), diventa chiaro come un punto di vista somatico possa portare ad una “cognizione incorporata” di qualsiasi aspetto attenga la pratica sportiva.
Se è noto e diffusa l’idea che, grazie ai meccanismi della propriocezione siamo in grado, ad occhi chiusi, di alzare un braccio lateralmente e di avere cognizione della distanza del nostro braccio dal corpo e della sua altezza, non altrettanto intuitivo è comprendere come, ad esempio, siamo in grado di controllare in modo fine un oggetto che non fa parte del nostro corpo, tipo una penna quando scriviamo.
Semplificando, questa capacità umana di utilizzare oggetti esterni come delle appendici o delle protesi del nostro corpo è una “incarnazione” della nostro conoscenza/abilità di scrittura, detta appunto embodiment.
Di più, ci suggerisce che l’interazione con l’ambiente e con gli oggetti che costituiscono l’ambiente di vita umano, non è un’interazione passiva, ma uno scambio nel quale l’oggetto (la nostra penna e l’area di scrittura, il sistema di convenzioni e regole che permette di articolare un discorso per iscritto e di decodificarlo) ha una parte attiva.
James J. Gibson (1979), nel suo The ecological approach to visual perception (Mimesis Ed., 2014), chiama questo meccanismo d’interazione Affordance o “invito all’uso”; con tale termine, quindi, si definisce la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo.
Ogni oggetto possiede le sue affordance e permette all’utilizzatore di dedurne intuitivamente le funzionalità, anche avendone un’esperienza limitata o, in alcuni casi, alcuna esperienza.
[…]
Se spostiamo ora una comprensione di questo genere a una pratica sportiva e ad azioni demandate a un attrezzo, ad esempio gli sci nello sci alpino, capiamo che ogni discorso tecnico inteso in modo convenzionale è quanto meno non adeguato sul piano degli apprendimenti, se non fuorviante.
Rinvio a un articolo sul set-up dei materiali – che, ancorché divulgativo, non manca di spunti e intuizione che vanno oltre la semplice divulgazione – scritto a quattro mani con Claudio Ravetto e disponibile al link https://rivistaaccademiamds.wordpress.com/2023/02/12/importanza-dei-materiali-e-set-up-nello-sci-alpino-una-lettura-dinsieme/
Non spetta a me sviluppare, a partire da queste premesse, un discorso critico sul modo di approcciare l’insegnamento dello sci, e il miglioramento delle prestazioni nell’atleta evoluto; credo comunque di aver fornito sufficienti spunti per ripensare, in modo diverso dall’attuale:
- la relazione mente-corpo, e mente-corpo-ambiente, da ultimo non scindibili e dove il corpo – diversamente da come declinato usualmente – precede e informa le relazioni con la mente e quelle ambientali (embodiment);
- la relazione mente-corpo-ambiente, nelle sue estensioni in rapporto agli oggetti, intesi ora come affordance, o come stimolazione all’uso non riconducibile, da ultimo, né al soggetto, né all’oggetto in sé;
- la rilevanza del contesto tout court (ossia in senso generale e specifico), che è punto di partenza e punto d’arrivo dell’attività di programmazione, progettazione, performance, analisi del risultato e successivo modellamento;
- che la filosofia, la psicologia, gli approcci procedurali alle discipline sportive, sono un sottoprodotto dell’esigenza di ordine dell’organismo, che ha radici biologiche profonde, ma è subordinato al movimento;
- questo ordine non è da intendersi come un ordine lineare, non vi sono processi di causa-effetto, ma, con i biologi, come un ordine che emerge quando i processi si collegano circolarmente, in una situazione in cui, come descrive Stuart Kauffman (The Origins of Order: Self-Organization and Selection in Evolution,1993), il sistema è ai confini del caos;
- a partire dalla nozione di Affordance siamo in grado di trasferire ai nostri atleti non tanto delle soluzioni a un problema, ma qualche cosa che è più simile a dei percetti, ossia a delle invarianti: qualche cosa che “rimane uguale a se stesso” quando cambiano le contingenze, la prospettiva;
- la percezione è dunque un fenomeno interspecifico, in cui le informazioni disponibili sono correlate all’esperienza, al percetto, che necessariamente ricomprende (o deve ricomprendere) la percezione intenzionale degli oggetti in uso o affordance;
- anche le sinergie di azione tra uno sciatore di sci alpino e gli altri dispositivi presenti (timing, gestione dello spazio, morfologia delle superfici e simili) sono simili a dei percetti sensoriali: si tratta di invarianti utilizzate come un’anticipazione che informa l’azione e la sua riuscita.
[…]
È a partire dalle proprietà dell’attrezzo quindi, dalle sue funzioni e caratteristiche attuali, dalla sua Affordance, che vanno ripensati l’approccio tecnico e la sua metodologia.
Anche alla luce del fatto che una serie di risposte adattive dello sciatore di sci alpino all’attrezzo in uso e al contesto, non sono immediatamente evidenti all’osservatore, ma comunque presenti.
Le relazioni e le risposte all’ambiente, che includono quelle con gli oggetti che caratterizzano la disciplina, potrebbero essere definite alla stregua di un “tropismo”, ossia di un movimento determinato dall’azione diretta o indiretta, consapevole o meno, di uno o più stimoli esterni.
Non sono evidenti e spesso descritti come riflessi, per dare un esempio, i processi sottostanti alla stabilizzazione, che vengono appresi in un’età molto precoce della vita e non appena s’impara a tenere la testa eretta; ma si modificano e adattano a condizioni diverse (di tipo fisiologico, dinamico, posturale, ecc.) per tutto l’arco della vita.
Anzitutto deve esserci integrazione tra sensazione di movimento della testa e la sua posizione nel campo della forza di gravità, prodotta dall’apparato vestibolare, e i segnali propriocettivi dei muscolari oculari e del collo.
Deve essere presente anche il senso di capacità agente che fa orientare gli occhi e la testa.
Tale capacità deve poi integrarsi con la sensazione visiva che produce la percezione del movimento, e deve farlo in condizioni dinamiche, con variabilità della pendenza e/o in condizioni aeree.
C’è inoltre una relazione non trascurabile tra funzionamento del sistema vestibolare e percezione visiva (A. Berthoz, Il senso del movimento, 1998); tale per cui alcune difficoltà dello sci alpino indicate come tecniche, in specie nell’élite, sono difficoltà da ricondurre, verosimilmente, ad altra matrice.
Quello che facciamo riferendoci a difficoltà tecniche, o mentali, o altre, è una scomposizione che, nella migliore delle ipotesi, ha una valenza colloquiale e didattica. A meno che non s’intenda per “tecnica” – e sarebbe opportuno farlo – quell’esperienza incarnata di cui sopra (embodiment), dalla quale a posteriori traiamo, come esseri senzienti e in relazioni a un determinato contesto, idee, supposizioni, convinzioni, parole.
*Per attività di supporto individuale (mental coaching) e formative rivolte a gruppi (sci club, professionisti, gruppi sportivi, squadre) v. in Contatti