Silenzio in pista. Riflessioni sull’etica, il rischio e l’educazione nello sci alpino giovanile

Silenzio in pista. Riflessioni sull’etica, il rischio e l’educazione nello sci alpino giovanile

di Enrico Clementi

1. Introduzione

Nel mondo dello sci alpino giovanile, come in molti altri contesti sportivi, parole come “educazione”, “centralità della persona” e “crescita globale dell’atleta” ricorrono frequentemente nei documenti programmatici, nei discorsi pubblici e nei progetti formativi. Tuttavia, troppo spesso tali parole restano sul piano delle enunciazioni, prive di un reale impatto trasformativo sulle pratiche quotidiane.

È in questo scarto, tra ciò che si dice e ciò che si fa, tra teoria e prassi, che si genera un silenzio denso e pervasivo, particolarmente evidente quando si affrontano tematiche scomode come il doping, la sicurezza, gli infortuni gravi e, in alcuni casi estremi, la morte di giovani atleti.

Queste riflessioni non nascono da un intento accusatorio (l’articolo è redatto prima dell’ultimo incidente mortale, quello di Margot Simond), né vogliono alimentare un clima di sospetto, bensì nascono da un’urgenza educativa. L’urgenza di riaprire un discorso collettivo sul senso dello sport giovanile, sul modello di atleta che stiamo formando, e sul prezzo, spesso taciuto, che si paga per rimanere entro un intervallo – invero sempre più ristretto – tra atleta promettente e non, di talento o meno, sul quale fare o declinare investimenti futuri.

2. Il rischio normalizzato

Lo sci alpino è uno sport ad alto tasso di rischio: velocità elevate, superfici ghiacciate, visibilità variabile, attrezzature e setup aggressivi. È parte della sua natura. Tuttavia, ciò che dovrebbe stimolare una cultura della responsabilità e della consapevolezza, viene spesso assorbito dentro una narrazione normalizzante del pericolo. L’infortunio grave è vissuto come una fatalità; la caduta, anche quando conseguenza di scelte tecniche o organizzative indicate da alcuni come “discutibili”, è liquidata come componente inevitabile del gioco.

È noncurante dire “è fatalità”, “è morto facendo ciò che voleva fare” e frasi del genere; o meglio, ci si aspetterebbe qualcosa di più e di diverso da un contesto, da una comunità, che appunto afferma di mettere al centro la persona, al profilo dell’atleta. Anche se le due cose, evidentemente, non sono del tutto separabili, ma riteniamo che debba essere la persona a fare l’atleta, e non viceversa; pena la persona in balìa di interessi, dinamiche, pressioni forse inevitabili del sistema. 

Nel circuito agonistico giovanile, questa normalizzazione del rischio diventa ancora più problematica. I giovani atleti, per età e sviluppo fisico, psicologico, non sempre possiedono gli strumenti per comprendere a fondo le implicazioni delle proprie scelte o dei contesti in cui agiscono. Quando a ciò si aggiunge la pressione del risultato, il rischio non solo viene accettato, ma sovente, direttamente o meno, incentivato.

Manca, in molti casi, un autentico spazio di decantazione o riflessione per elaborare questi aspetti. La formazione dei tecnici e dei dirigenti raramente include moduli sulla gestione del rischio in chiave pedagogica o bioetica. E gli atleti vengono lasciati soli, o peggio, indotti a “resistere” come dimostrazione di carattere o abbracciando una retorica della antifragilità.

3. Un caso: il doping e la cultura della performance

Nel quadro appena delineato si inserisce il tema del doping, che non può essere letto semplicemente come una devianza individuale, ma come sintomo di una cultura sportiva incentrata sulla prestazione come fine assoluto. Nello sci alpino giovanile, il doping non è necessariamente farmacologico: può assumere forme più sottili, come l’abuso di integratori, l’adozione di pratiche di recupero o potenziamento non del tutto trasparenti, la pressione psicologica a “dare tutto” anche quando il corpo o la mente chiederebbero altro.

In un recente articolo che ho dedicato proprio a questo tema, titolato Ombre sul bianco. Il doping nello sci alpino giovanile: tra regolamenti, casi e prevenzione, ho cercato di esplorare il rapporto tra doping e agonismo giovanile; partendo dall’impressione — confermata da molte interazioni — che la percezione del fenomeno tra tecnici, dirigenti e atleti sia in gran parte elusiva. La tematica viene spesso minimizzata, ignorata, o considerata un tabù: parlarne apertamente, in specie per quanto riguarda le categorie giovanili, può risultare scomodo, come se ciò potesse indebolire, anziché rafforzare, la credibilità del sistema stesso.

Eppure, non affrontare la questione significa lasciare campo libero a una cultura dell’ambiguità, in cui l’etica della cura e del rispetto per sé viene subordinata all’esigenza di primeggiare. Una cultura che, alla lunga, mina non solo la salute degli atleti, ma anche la sostenibilità d’insieme del sistema sportivo e il ben-essere collettivo. Ed elude le responsabilità di noi adulti: genitori, tecnici, professionisti, dirigenti, figure chiave di responsabili preposte ad azioni di coordinamento e controllo di determinate aree o settori.

4. Il silenzio sistemico

Tra gli elementi più inquietanti di questo quadro c’è il silenzio. Un silenzio che non è solo assenza di parole, ma vera e propria latenza strutturale. Tecnici, dirigenti, a volte anche famiglie e atleti stessi: tutti sembrano contribuire, in modi diversi, a mantenere un equilibrio che non venga destabilizzato da domande scomode.

Si tace per non esporsi, per non essere messi da parte, per non perdere opportunità. Si tace perché il sistema lo esige, perché altrimenti si viene percepiti come sabotatori. E si tace, infine, perché il mondo gare ha interiorizzato una logica per cui l’esito sportivo giustifica se non tutto, molte cose.

L’ambiente dello sci alpino sa essere espulsivo, e in modo tacito sa coalizzarsi, sa fare muro, attorno a questioni o a figure professionali in qualche modo “non desiderate”, perché non allineate o capaci di ragionare fuori dagli schemi. Forse ogni ambiente ha caratteristiche di questo genere, ma ciò non giustifica il comportamento.

Questo silenzio, però, è dannoso. Impedisce la prevenzione, rallenta i processi di cambiamento, spegne la possibilità di pensare alternative, ma anche di innovare sul piano tecnico. È un silenzio che isola chi prova a porre domande, che marginalizza le riflessioni critiche, e che trasforma il disagio diffuso in colpa individuale.

5. Altri modelli sono possibili

Esistono tuttavia mondi sportivi dove, pur con contraddizioni e limiti, si è sviluppata una cultura del rischio e della prestazione fondata sull’etica della scelta e della responsabilità, che ha una matrice individuale e collettiva. Ad esempio l’alpinismo, nelle sue diverse declinazioni, è uno di questi. Anche nei contesti più estremi — come l’arrampicata libera o le spedizioni in alta quota — l’assunzione del rischio è spesso il frutto di un’elaborazione personale profonda, di un confronto continuo con i propri limiti, e di una responsabilità esplicita verso sé stessi e verso la comunità.

La riflessività è parte integrante della pratica. Si discute pubblicamente di stili, di etica, di scelte di condotta. Per non rimanere nel vago, invito ad esempio a seguire l’evoluzione e il lavoro culturale dei “Ragni di Lecco”.

La caduta, l’incidente grave, perfino la morte, vengono letti non come tabù da rimuovere, ma come fatti da elaborare e comprendere. Questo non elimina il rischio, ma lo rende pensabile, dicibile, integrabile in una traiettoria di crescita, che coinvolge, appunto, il singolo e la comunità.

Da queste pratiche lo sci alpino può imparare. Non per imitazione, ma per recuperare una dimensione educativa del gesto sportivo che non separi mai la performance dalla responsabilità; l’impresa, dal dubbio sull’etica dell’impresa stessa e sul senso della sfida. E che inizi dalle basi a compensare la spinta verso il risultato, con proposte altre che includono il rafforzamento di capacità critiche personali, e la possibilità di scegliere all’interno di un ventaglio di prospettive egualmente valide, qualificate, ma differenziate.

Dove regole, equilibri, traiettore di crescita personali, fanno il paio con modelli altri, acquisiti criticamente, comunque fondati su basi valoriali coerenti. Tutela dell’ambiente, senso del limite, paura, dimensione estetica, solidarietà, cooperazione, sacrificio, attesa, lentezza, rinuncia e resa, sono solo alcune della parole chiave che animano la riflessione alpinistica, e che forse vanno riscoperte anche nello sci alpino.

6. Quale educazione sportiva?

Se vogliamo davvero parlare di educazione nello sport, occorre spostare l’attenzione dal risultato cronometrico, alla formazione integrale della persona. Questo significa progettare contesti in cui l’atleta possa sviluppare – come si diceva – autonomia di giudizio, senso critico, capacità di scegliere, e non solo di eseguire. Significa che tecnici e dirigenti dovrebbero essere formati anche come educatori, capaci di gestire le ambivalenze, le fragilità, i dilemmi etici, le resistenze, esplicite ma anche latenti, del giovane atleta.

Mettere la persona al centro non può restare un enunciato generico: va tradotto in pratiche, in scelte politiche, organizzative, in tempi e spazi di ascolto, in percorsi condivisi di riflessione che muovano “dal basso”. Significa – come detto a più voci – rivedere i calendari, i carichi di lavoro, i modelli di successo, l’evoluzione dei materiali, le strategie di gestione dei materiali, i modi, i tempi e i luoghi d’apprendimento. Significa accettare che la prestazione può anche non arrivare, o può essere differita, e che il valore di un percorso non si misura solo in podi o tempi, in appartenenza o meno a circuiti.

Eppure – e su questo punto invito a fare un esame – molte di queste istanze, dalla centralità della persona alla crescita globale dell’atleta, compaiono già nei documenti ufficiali, nei programmi formativi, nelle linee guida federali, nelle proposte commerciali degli sci club. Il punto è che, troppo spesso, esse restano confinante a un piano enunciativo, prive di effettività. Non vengono tradotte in criteri operativi, in strumenti valutativi, in comportamenti quotidiani. È questa distanza tra parola e prassi a rendere l’educazione sportiva spesso inefficace, e a generare sfiducia tra chi osserva da vicino o vive la vita reale dei settori giovanili.

Dietro questi settori – anche internazionali – ci sono strutture organizzative, e dietro queste strutture ci sono persone fisiche, preposte non solo al coordinamento o alla direzione tecnica, ma appunto al monitoraggio e alla valutazione di pratiche che non sono solo finalizzate allo sviluppo dell’atleta, ma alla sua tutela. Domando, pur nel rispetto delle comunicazioni ufficiali: dove sono queste voci? Che parte hanno nel dibattito collettivo? In ragioni di quali logiche il loro silenzio è tollerato?

7. Conclusione

A scanso d’equivoci: non è in discussione l’approccio performativo in sé e lo sport agonistico è, e deve rimanere, anche tensione verso il miglioramento, il superamento di sé, la sfida. Ma ciò che va rivisto sono i presupposti culturali ed etici — anche personali — su cui tale approccio si fonda. È tempo di chiederci quale idea di successo vogliamo trasmettere, quale modello di atleta stiamo contribuendo a costruire, e se siamo disposti a rendere conto, come comunità educante, delle scelte che compiamo.

Rompere il silenzio non significa accusare, puntare il dito, ma prendersi la responsabilità di ideare contenuti e agire proposte concrete. Perché solo confrontandosi, mettendo in discussione le proprie conoscenze e il sapere acquisito, si può costruire un sistema più intelligente, più umano, forse più giusto e degno dei giovani che lo abitano.

Gli atleti meritano rispetto e, come detto in altra sede, meritano un contesto “sufficientemente riconoscente”. Ma non – come qualcuno ha commentato – per una ragione di scambio o meramente commerciale, ma perché ogni gesto, ogni fatica, ogni caduta e ogni slancio raccontano una storia che va accolta, accompagnata, valorizzata. Perché dietro ogni giovane atleta c’è una persona intera, con desideri, paure, potenzialità, limiti, che eccedono la sola dimensione performativa o tecnica. E allora forse il nostro compito più alto non è solo quello di allenare a vincere, ma di educare a stare, a scegliere, a diventare, a cambiare. Anche — e soprattutto — quando la pista è muta, silenziosa e i canali di in-formazione (il trattino alto è voluto) forse limitati e insufficienti.

Produzione della conoscenza, ossia creazione di nuovi saperi, o di nuove organizzazioni del sapere, e diffusione della conoscenza (istituzionale e non), sono infatti come gli avamposti del cambiamento, e i processi fondamentali per la crescita culturale – ma anche politica ed economica – del settore sportivo in genere e dello sci alpino in particolare.

[…] per attività di studio, consulenza, formazione, re-visione del proprio sistema di orientamento agonistico, v. alla pagina Contatti