Sci alpino e metodo: una visione eterodossa

Sci alpino e metodo: una visione eterodossa

Il presente articolo è un versione opportunamente rivista di quello apparso su Scimagazine il 28 Marzo scorso e titolato “Sci alpino e metodo: il (falso) problema della continuità” https://www.scimagazine.it/sci-alpino-e-metodo-il-falso-problema-della-continuita/

Abbiamo espunto alcuni paragrafi, al fine di rendere più chiaro ed essenziale l’impianto teorico, ossia le Premesse, dalle quali abbiamo derivato le conseguenze (Corollario) e gli ulteriori sviluppi operativi.

Riteniamo che un approccio al mentale nello sci alpino così concepito possa avere un importante impatto su teorie e modelli convenzionali, evidenziandone da un lato le potenzialità didattiche, dall’altro i limiti dovuti alla complessità del fenomeno considerato: la prestazione umana.

Infatti, in questo senso, non sono le tecniche ad innescare un cambiamento nell’atleta, sul piano della solidità, della continuità, della compattezza, ma un lavoro sulle caratteristiche personali in termini di integrazione dei vissuti e degli atteggiamenti: è più conveniente, sul piano prestativo, lavorare sulle caratteristiche personali, che non su tecniche di gestione e controllo emotivo.

Premesse: percezioni e linguaggio

Una premessa del nostro lavoro sull’allenamento mentale nello sci alpino, è la seguente: il linguaggio non ha solamente una funzione descrittiva, ma costruttiva.

Questo significa che il modo in cui diciamo le cose, il modo in cui le descriviamo a noi stessi e agli altri, incide significativamente sul nostro modo di percepire la realtà.

Ma il modo in cui ci rappresentiamo o rappresentiamo ad altri le cose, incide – vedremo in che modo – anche sull’evoluzione tecnica e sulla soluzione o meno di problematiche, difficoltà, errori tattici a volte ostinati e difficili da risolvere.

Un’ulteriore premessa riguarda la distinzione tra sensazione, e percezione.

Se la prima indica le informazioni derivate dai sensi, in se stesse “neutre”, la seconda indica l’elaborazione cognitiva delle informazioni stesse, alle quali attribuiamo significato, valore.

Queste premesse, se assunte criticamente, sono per noi, per i nostri atleti, dei veri e propri postulati dell’allenamento mentale, che definiscono il metodo e quindi l’organizzazione dei materiali.

Non esiste, infatti, un vero ordine nel concepire il mentale nello sci alpino, se non a fini didattici e tutto – in qualche modo – ha a che fare con tutto: se inizio parlando di attenzione, ad esempio, non posso non chiamare in causa l’attivazione e se parlo di attivazione, non posso non parlare di motivazione e se parlo di motivazione, ancora, non posso non fare riferimento all’autoefficacia percepita e quindi all’autostima ecc.

Da questa evidenza si deriva il valore relativo di ogni modello, o teoria, riguardanti l’allenamento mentale, se non il valore di tali modelli o teorie in chiave educativa e didattica.

Se non vi sono modelli, teorie, organizzazioni predefinite nel trattare il mentale nello sci alpino – ma, da ultimo, neanche aspetti tecnici, in termini di “progressione” – allora ogni approccio implica un azzeramento delle competenze e un ripensamento del mentale stesso, in termini di priorità, argomenti, relazioni tra parti.

Riteniamo infatti che sia proprio questo elemento, ossia la relazione tra parti, a qualificare le esperienze, e con esse la qualità dell’apprendimento – in fine, l’obiettivo è quello di rendere evidente, cogente, il rapporto tra prestazione e abilità mentali, ossia tra azione efficace in grado di raggiungere scopi (v. articolo precedente: Lo sciatore “intelligente”: sci alpino e agency) e identità.

Sospensione del giudizio e cautela interpretativa

Le premesse da noi evidenziate hanno chiare conseguenze, sul piano del metodo e generano un corollario, delle deduzioni, che possiamo provare ad elencare. È a partire da tali deduzioni che individueremo poi delle parole chiave, che hanno per noi e avranno per i nostri atleti un valore operativo e un carattere direzionale.

Ricordiamo le premesse, la prima delle quali modulata dalle neuroscienze, la secondo d’impronta costruttivista:

  1. c’è distinzione tra sensazione e percezione: la seconda è elaborazione cognitiva di un’informazione in se stessa “neutra”, sul piano valoriale;
  2. il linguaggio non ha solamente una funzione descrittiva, ma costruttiva – nel nostro caso, sia in senso identitario, che nelle potenzialità del linguaggio stesso di aprire finestre di senso che “risolvono” problemi, o li collocano diversamente, o permettono all’atleta di sostare in essi in modo differente.

Corollario:

  1. la nostra percezione dei fatti, il modo che abbiamo di raccontarli a noi stessi e agli altri, può risultare ingannevole e alimentare una “falsa percezione” di sé, sia in termini di risorse che di difficoltà;
  2. la nostra interpretazione dei fatti ha un significato, un valore, sempre e comunque relativo e dinamico: la nostra interpretazione dei fatti, o il modo che abbiamo, come tecnici, di porgere contenuti, è sempre e comunque “per approssimazione”, asintotica;
  3. del pari, gli aspetti prestativi, entro ma al di là dei risultati oggettivi, possono non corrispondere alla nostra percezione, sia “per difetto” che “per eccesso”;
  4. il fare propri alcuni costrutti, alcune rappresentazioni mentali, costringe la crescita personale – e con essa il talento – in zone perimetrali che potrebbero bene non essere quelle dell’atleta e quindi agire, al di là dei parziali benefici, forme di sabotaggio più o meno evidenti;
  5. una cautela interpretativa, una sospensione del giudizio, una centratura sul compito, un silenzio vigile, il focus sulle “sentire” (feel) e l’ancoraggio positivo al gesto tecnico, l’assunzione dei tempi di latenza e simili, sono abilità strategiche che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, sia il dialogo interiore dell’atleta, l’introspezione, che quello esteriore; ma dovrebbero caratterizzare, pure, la relazione dell’allenatore con il suo atleta.

Dinamiche operative

Sul piano pratico le nostre deduzioni:

  1. ci mettono in guardia da quello che pensiamo e diciamo, dalle nostre interpretazioni, e ci costringono quindi a relativizzare quello che sappiamo, tornando sempre e nuovamente a rileggere le nostre acquisizioni, convinzioni, modelli, riformulandone i contenuti;
  2. ci permettono di interpretare quello che gli altri dicono – quello che l’atleta dice, se tecnici, o quello che il tecnico dice, se atleti – non a fini meramente critici, ma secondo un approccio critico-costruttivo finalizzato alla crescita globale dell’atleta;
  3. ci permettono di capire meglio la relativa funzionalità o la non funzionalità, per uno sport come lo sci alpino, che sappiamo essere uno sport soggetto ad infinite variabili, di elementi tecnici “impiantati” o di teorie, modelli, tecniche di gestione e controllo emotivo.

Da questa prospettiva non ci interessa quanto l’atleta sia “vincente” (può bene esserlo, vincente, ed avere però irrisolti e forme di auto-sabotaggio che ne limitano le potenzialità), ma il suo percorso di crescita attale, sia professionale che umano: il processo eccede la prestazione, così come la prestazione eccede il risultato. Il risultato è una conseguenza dell’efficienza prestativa, che a sua volta implica una chiara percezione di sé e comporta relazione tra parti, anche dissonanti, integrazione e non controllo.

Se dovessimo rappresentare questo processo di crescita dell’atleta, che è cognitivo ed emotivo a un tempo, lo vedremmo passare dal pensiero alla parola, dalla parola all’azione, dall’azione all’abitudine (quello che fa, in termini di coerenza e pertinenza, diviene habitus, prassi), dall’abitudine ad una più chiara ed integrata percezione di sé; da questa percezione a quella che nel precedente artico abbiamo chiamato azione intelligente. Azione che comporta – oltre l’automatismo – il recupero di spazi ulteriori di pensabilità positiva, di generatività e innovazione, di visione e decisionalità strategica.

Non esiste la resilienza a oltranza o l’antifragilità, se non come costrutto,  e non esistono soluzioni rapide a difficoltà prestative ostinate. Tanto meno esistono soluzioni rapide all’assenza o alla discontinuità di risultati; ma esiste invece la possibilità di generare relazioni positive tra parti di sé e vissuti dissonanti, e la possibilità di fare integrazione.

Le nostre parole chiave sono dunque sospensione, relazione, integrazione, introspezione, latenza, proprio perché convinti – come detto – che il processo, la crescita personale e la tutela dell’atleta siano non solo prioritari rispetto al risultato, ma propedeutici ad esso.

Le difficoltà, le fragilità, la produzione di errori, il senso di inadeguatezza, vanno ricondotti entro un ambito di normalità. Vanno “normalizzati” e trattati alla stregua di fattori tecnici: la via al risultato, passa, necessariamente, da difficoltà, confusione, produzione di errori, incertezze personali, momenti di stallo e finanche regressione.

Abbiamo detto in apertura che il modo in cui ci rappresentiamo o rappresentiamo ad altri le cose, incide sull’evoluzione tecnica e sulla soluzione di problematiche, difficoltà, errori a volte ostinati.

L’allenatore, quindi, anche se referente ultimo del processo di crescita dell’atleta, deve avere chiara percezione di quello che può e di quello che non può fare, in termini di restituzione all’atleta stesso di contenuti, logiche, significati, che non sono meramente tecnici, ma cognitivi ed emotivi a un tempo.

Enrico Clementi

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