Il profilo ottimale dei nostri programmi di alfabetizzazione emozionale è di iniziare presto, di essere adeguati all’età, di essere svolti in ogni anno scolastico e di coordinare gli sforzi a scuola, a casa e nella comunità
– M.J. Elias, L. Hunter e J.S. Kress
È diffusa l’idea che l’allenamento mentale, nello sci alpino, sia qualche cosa che si approccia da un certo punto in poi del percorso agonistico.
Tuttavia, quale sia questo “punto”, è un aspetto discrezionale che alcuni pensano in un modo, altri in un altro.
Sono diverse la ragioni di questa discrezionalità nel concepire il mentale, e agni tecnico esprime verità proprie, in ampia parte derivate da esperienze personali e modelli di riferimento.
A mia volta, almeno fino a questo punto, ho pensato che fosse opportuno avviare un lavoro sul mentale diffuso nelle categorie minori, a partire dai Ragazzi (U 14), con qualche timida apertura agli U 12.
Questa convinzione, in larga parte dovuta alla difficoltà di immaginare percorsi e attività sul mentale per bambini di 6, 9, 12 anni, è oggi cambiata e credo fondamentale raccogliere questa sfida. Sfida che comporta da un lato l’ideazione di materiali didattici “ad hoc” per Baby e Cuccioli, dall’altro abilità educative che a mia volta devo affinare.
È per questa ragione che ho iniziato a sperimentare sul campo sussidi e attività oriente a queste categorie, coinvolgendo, dove possibile farlo e previo assenso dei piccoli (!), genitori e tecnici.
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È corretto parlare, per queste categorie, come io faccio da tempo, di ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA, data l’enfasi che la scuola e altri soggetti pubblici e privati danno alle così dette “competenze non cognitive”: è del gennaio scorso l’approvazione alla Camera dei Deputati della proposta di legge (n. 2372) relativa al Disegno di legge 2493 per “l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”.
Non entro in questa sede sul dibattito critico riguardante la definizione di “competenze non cognitive” e sul rapporto tra hard skills, soft-skills, life skills, character skills, coping skills ecc., che il lettore del presente articolo potrà approfondire in modo autonomo.
Non preciso neanche i termini di “Intelligenza emotiva” (Goleman) e quindi di “emozione”, “sentimento”, “affetto”, “umore” e simili, che a questo punto – almeno per chi segue i miei articoli – do per noti, anche se si continua a discutere su quali precisamente possano essere considerate le emozioni primarie; o, come dice Goleman: il blu, il rosso e il giallo dai quali derivano tutte le mescolanze […] o perfino sull’esistenza di tali emozioni primarie.
Torno invece alla specificità del lavoro sul campo con Baby e Cuccioli, per quello che riguarda sussidi, modalità, finalità pratiche del mentale nello sci alpino; questo a partire dall’integrazione degli apprendimenti specifici (hard skills), con altri “trasversali”, ossia non ancorati ad ambiti conoscitivi specifici.
Nelle relazioni tra loro, o con i genitori, con gli allenatori, ma anche con loro stessi in termini di vissuti personali, è evidente che i bambini non sappiano bene come comportarsi, come reagire. E sarebbe sbagliato attendersi qualche cosa di diverso (il bambino sta facendo esperienza di queste cose), anche se a volte ce lo aspetteremmo.
Per cui un primo passo è quello di riconoscere e saper collocare, per i nostri Baby e Cuccioli, le emozioni proprie e altrui, con il fine poi di sviluppare abilità intrapsichiche ed interpersonali.
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Il lavoro si svolge quindi in piccoli gruppi, omogenei o meno in termini di età e abilità acquisite (la scelta dipende dagli obiettivi), e attraverso l’utilizzo di giochi (role play) dove l’altro è presente come modello, come oggetto, come amico, come nemico, come sostegno o altro.
Per i bimbi fino ai 12 anni ho quindi creato dei giochi e dei sussidi (delle immagini), raggruppando le principali emozioni in 7 aree, che andremo a riconoscere prima, e a gestire poi:
- Gruppo della felicità,
- della tristezza,
- della paura,
- della rabbia,
- del disgusto,
- dello stupore,
più un gruppo che ho indicato come Neutro, ossia corrispondente a un’emozione dubbia, di incerta attribuzione.
Conoscere le emozioni, sperimentarle in ambiente protetto, riconoscerle in se stessi e negli altri, è un primo, necessario passo per imparare non solo a gestirle, ma anche a trovare risposte alternative a quelle simmetriche e del tipo “ti arrabbi-mi arrabbio”, “aggredisci-aggredisco” e simili.
Credo interessante, per permettere sia all’atleta, che al genitore e all’allenatore di capire meglio la relazione tra competenze emotive e prestazione agonistica, riportare il modo in cui Goleman stesso la definisce (1996): la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare.
Motivazione, perseveranza, gestione dei vissuti personali in genere e della frustrazione in particolare, organizzazione delle risposte, modulazione degli stati d’animo, sono aspetti del mentale che, a partire da un lavoro di alfabetizzazione, determinano la prestazione evoluta e il risultato.
L’alternativa a questo approccio è quella di pensare e dire, erroneamente, che il tale atleta ha o non ha caratteristiche adeguate allo specifico della disciplina, oppure, come si dice in gergo, ha o non ha “motore”; per cui l’adattarsi o meno a determinate caratteristiche di settore è, sul piano mentale, del tutto soggettivo e affidato al caso.
Viceversa, c’è un nucleo fondamentale di abilità che, come sostenuto, deve rappresentare il fulcro di ogni programma di allenamento per le categorie giovanili, sia che si parli di hard che di soft skills. Ma anche di prevenzione, di integrazione, di attività mirate al benessere dei bambini e degli adolescenti, indipendentemente dal contesto: quello dello sci alpino è solo un caso di applicazione, di sperimentazione e di studio.
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Questo nucleo fondamentale di abilità non si discosta molto da quello indicato dall’OMS (Skills for life, n. 1, 1994) e ricomprende, nella mia esperienza con i bambini, adolescenti e giovani:
- autonomia e capacità decisionali (Decision making),
- capacità di fornire risposte non casuali ma organizzate a difficoltà di percorso (Problem solving),
- capacità di pensiero divergente (creatività) e critico,
- comunicazione efficace,
- capacità di relazioni interpersonali e comportamenti collaborativi,
- autoconsapevolezza,
- empatia,
- gestione delle emozioni,
- gestione dello stress.
Ora, come non è pensabile che un bambino impari a leggere correttamente, in modo rapido e capendo il senso di tutto quello che legge in un solo anno, così non è pensabile che diventi emotivamente competente attraverso un numero limitato di esperienze, oppure in modo casuale.
È per questo, infatti, che consiglio, nei vari contesti in cui opera, un lavoro pluriennale: come l’apprendimento della lettura è un processo, analogamente il comprendere le proprie emozioni e quelle degli altri richiede un certo tipo di allenamento e strumenti, strategie di vario genere.
È un processo che inizia dalla primissima infanzia e che troppo spesso viene lasciato al caso, generando a volte – e se ne vedono gli effetti anche nella vita adulta – un vero e proprio “analfabetismo emotivo”; con mancanza di consapevolezza e quindi di controllo e gestione delle emozioni, mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali ci comportiamo in un certo modo, difficoltà a relazionarsi con le emozioni degli altri e con i comportamenti che da esse scaturiscono.
Per questo, al di là di alcune esperienze positive negli sci club, credo che un lavoro diffuso di alfabetizzazione già a partire da Baby e Cuccioli, per poi integrare con attività individualizzate dai Children in poi, sia fondamentale.
Domande come: cosa sono le emozioni? Quello che provo io, lo provano anche i grandi? Se ho paura, se sbaglio, se sono triste o arrabbiato, l’allenatore (o un genitore) cosa pensa di me? Non capisco bene quello che mi succede… non so quello provo… non riesco a gestirlo… che faccio?
Queste sono le domande che si fanno i bambini, a scuola come in altri contesti, tra i quali quello sportivo.
Se un adulto intende porsi in modo corretto, evolutivo nei confronti di un bambino o di un ragazzo ed essere coerente rispetto alle aspettative che il bambino o il ragazzo hanno nei suoi confronti, deve avere ben chiaro quanto segue: un bambino, tanto più è piccolo, tanto meno ha esperienza del mondo e delle reazioni emotive ad esso.
Il che significa che sta sperimentando per la prima volta, o per le prime volte, delle sensazioni nuove, dei contesti ai quali non è abituato, delle situazioni che non ha avuto ancora modo e tempo di esplorare; significa anche che, se non guidato, a volte non sa collocare in modo conveniente una certa esperienza, un certo vissuto, oppure non sa dare un nome a ciò che sperimenta.
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Nel bambino si trovano confusi, mescolati, l’emozione che prova, i comportamenti, le intenzioni che ha, i bisogni; e intervenire su un comportamento, o su una richiesta del bambino, significa intervenire non solo su un comportamento o una richiesta magari inadeguati, ma su ciò che il bambino prova, sulle intenzioni inespresse, su tutta la sua persona: SEI disobbediente! SEI prepotente! SEI cattivo!
E la confusione del bambino, l’ansia, l’incertezza si rafforzano.
Per concludere aggiungo che nessuno di noi è in grado di trasferire conoscenze, competenze, abilità, se prima non le ha apprese. Per cui nessun genitore, o insegnante, o coach può aiutare il bambino a crescere e ad integrare le esperienze che andrà facendo, positive o meno che siano, se a sua volta ha difficoltà sul versante emotivo.
Mettersi in discussione a livello personale e professionale rispetto alle proprie competenze emotive, quindi, fa il paio con l’acquisire almeno quelle competenze emotive che s’intende trasmettere, attraverso un percorso analogo a quello che verrà proposto ai bambini, agli adolescenti e ai giovani.
Da qui l’importanza della formazione e che i tecnici siano aperti e disponibili a percorrere strade nuove in campo educativo, mettendosi in discussione a livello personale e professionale, per quanto attiene l’area delle competenze “non cognitive”.