È frequente, nel lavoro con gli sci club, che gli allenatori mi chiedano, a beneficio di giovani e famiglie, di trattare il tema legato all’uso dei cellulari: eventuali regole, frequenza (quando e come utilizzarlo), significati.
Più in generale, sovente, si fa riferimento all’uso delle regole e a come immaginare un sistema di regole funzionale alla crescita dei giovani, alle dinamiche di gruppo e al buon andamento delle attività.
Noto in genere una certa precomprensione da parte degli adulti e una tendenza al giudizio, nei confronti di ragazzi che, evidentemente, hanno una cultura, una sensibilità e urgenze diverse da quelle delle generazioni precedenti.
Consideriamo che i nostri giovani hanno nel 2023 tra gli 8/10 e i 23/25 anni e sono i primi a non aver conosciuto un mondo senza tecnologie e ambienti digitali; cosa che non può non influire su come vivono quotidianità, consumi, aspettative nei confronti di quello che fanno e di come lo fanno.
Questa generazione di giovani, ai quali nonostante tutto sci club e Federazione sono chiamati a dare risposte non solo qualificate, ma attuali, sono detti Gen Z o Generazione Z – o anche, se nati tra il ’95 e il 2010, Centennials, perché appunto nati a cavallo del secolo.
Al di là delle nomenclature, che tuttavia contribuiscono a definire il fenomeno, l’attuale generazione di maestri e allenatori è una generazione nata, educata, cresciuta in una situazione sociale, culturale ed economica assolutamente diversa dall’attuale: molti di loro sono baby boomer, ossia nati tra il ‘50 e gli anni ’70, oppure nati tra il ’65 e l’80 (Generazione X), cioè in tempi di ripresa economica, di sviluppo tecnologico, di rinnovata sensibilità ai temi ambientali e in tempi di natalità in forte crescita.
Anche solo da queste considerazioni, assolutamente provvisorie, è evidente che ogni confronto tra “noi” e “loro”, in termini di atteggiamenti, valori, motivazione, obiettivi ecc., è quanto meno improprio; oltre ad essere fondamentalmente errato e quindi fuorviante sul piano metodologico e delle proposte concrete.
Dato che è impensabile “piegare” i giovani, un’intera generazione, ai nostri modelli interpretativi e al nostro sistema valoriale di riferimento, la domanda è: come adeguare le organizzazioni, gli sci club, i gruppi giovanili, in termini proposte educative e di formazione, a un modello culturale diverso? Senza per questo minare alcuni apporti dell’attiva sportiva e agonistica, così come comunemente intesa.
Proveremo ad abbozzare alcune riflessioni e qualche risposta.
Generazione Z e sci club: quale modello?
Premesso che non esistono “vie brevi” al mentale e che la crescita personale, in fondo, è il percorso di una vita, le dimensioni che oggi sembrano deficitarie nei nostri giovani, limitatamente all’attività agonistica, sono riconducibili ad alcune aree, che d’appresso definiremo.
Inoltre, va premesso che gli stessi ambienti di formazione, gli sci club, piuttosto che i gruppi di comitato o le squadre, dovrebbero configurarsi come luoghi strutturati in modo funzionale all’acquisizione di conoscenze, competenze, abilità, che non possono essere circoscritte a quelle specifiche: se evidente che ci sono difficoltà nei giovani sul piano motivazionale, dell’impegno, della determinazione nel conseguimento di obiettivi ecc., le nostre organizzazione dovrebbero essere profilate per permettere il rafforzamento di queste abilità.
Ciò significa che parallelamente al lavoro sul campo o tra i pali, si dovrebbero investire risorse ed energie per permettere ai giovani di rafforzare quelle competenze sulle quali la dimensione culturale attuale e le altre agenzie educative (scuola, famiglia, associazioni culturali ecc.) non riescono ad incidere in modo significativo.
Se c’è un valore forte all’interno degli sci club e del mondo gare, è quello dell’agonismo e del fair play che sostanzia quell’insieme di attività, relazioni, opportunità, nelle quali ci riconosciamo; ma l’atteggiamento agonistico, la competitività, sono aspetti che vanno allenati e sono il vertice di una piramide che presuppone elementi di base inalienabili, sui quali – come detto – va fatto un lavoro specifico di alfabetizzazione.
È vero che l’attività agonistica in sé contribuisce al rafforzamento di alcune skills mentali, e che in genere chi arriva al professionismo ha approntato strumenti per gestire gli aspetti della vita d’atleta, ma c’è un differenza fondamentale tra questa logica, assolutamente provvisoria, e un lavoro precoce, sistematico, programmato, di strutturazione del carattere.
È un lavoro che, come detto in altre sedi, va avviato in età precoce, perché trasversale ad altri contesti ed esperienze di vita, ma è un lavoro nel quale sci club e altre organizzazioni federali debbono credere e investire: il cambiamento inizia dal basso, ed è ozioso evidenziare difficoltà, problemi di rendimento nei giovani, in assenza di azioni correttive capaci di ridefinire priorità e politiche.
L’agonismo, questo sconosciuto
Come noto il termine agonismo deriva dal greco ágonismós (ἀγωνισμός) e significa “lotta”.
Senza fare una disamina storica del termine, sappiamo che là dove c’è contesa, competizione, lotta, ci sono anche fatica, frustrazione, a volte gratificazione e altre delusione profonda.
Ma la lotta va in primis ingaggiata! E nei nostri giovani, sovente, manca proprio questo passaggio preliminare, che appunto implica una sorta di obbligatorietà, di pegno (dalla forma riflessiva del fr. engager), perché:
a) non chiaro il contesto, che è appunto un contesto agonistico: se scelgo di fare agonismo non posso evitare di misurarmi con me stesso e con i miei limiti, con l’altro, con la fatica degli allenamenti, la sconfitta ecc.;
b) non chiare le regole dell’ingaggio, né, soprattutto, le modalità d’ingaggio: come entro nella lotta? Come sto nella lotta? Se “a terra”, come continuo a combattere, o come mi rialzo?;
c) non chiare le motivazioni, i valori, la trasversalità del gioco, che è appunto un “gioco serio”, un “divertimento difficile”, dove in ballo non c’è solo il podio, ma se stessi, la considerazione di sé, l’autostima;
d) il contesto, per ragioni storiche e culturali, ha caratteristiche non funzionali alla crescita dei nostri Centennials, perché autoreferenziale, cioè poco incline a mettersi in discussione e “in ascolto”, ma soprattutto attraversato da un modello ideale di professionista o atleta (da una retorica) che “schiaccia” i giovani.
Pensiamo che alcuni sociologi chiamano i nostri giovani “generazione invisibile”, proprio perché cresciuta all’ombra dei boomer e in un certo senso schiacciata dalle nostre caratteristiche identitarie, in specie in termini di volizione: i nostri giovani sembrano, nella maggior parte dei casi, proprio “non volere”, o avere difficoltà a volere, a pre-tendere, ad “andare a prendersi” qualche cosa, sia pure un risultato personale.
Il tema dell’ingaggio, o della mancanza delle capacità d’ingaggio, nei nostri giovani, ancora prima della competizione vera e propria, mi sembra fondamentale e andrebbe meglio evidenziato nelle nostre attività. Di fatto in alcuni sport (si pensi all’hockey) le regole d’ingaggio sono parte integrante dell’attività di gioco e nell’allenamento hanno tempi dedicati, che non ritroviamo nello sci alpino, dove la distanza tra allenamento e gara è oltremodo marcata, e sovente incolmabile: il giovane, l’allenatore, appunto, non sanno come colmare il divario tra prestazione reale e potenziale, che ad oggi rimane l’elemento più evidente – la punta dell’iceberg – dei molti aspetti che stiamo toccando e che qualificano la prestazione.
In questo senso, e ne dobbiamo essere consapevoli come genitori o tecnici, esponiamo i nostri ragazzi a un gioco rischioso, a un divertimento che pure ha i suoi risvolti drammatici, e che in molti casi, anziché rafforzare abilità, struttura incertezze personali, paure, fragilità, senso di impotenza… e rileviamo ormai molti casi, complessi da trattare, di quella che definiamo “impotenza appresa”.
Quindi, per i nostri giovani e per le caratteristiche generazionali che sembrano evidenziare: cosa fare, dove lavorare, su cosa tentare di incidere? Come sollecitare in loro quel desiderio, quella volizione, quella aggressività positiva che genera opportunità, autonomie, iniziativa propria, responsabilità?
Anche qui la parola aggressività ci dice di una caratteristica fondamentale dell’attività agonistica che promuoviamo come organizzazioni; infatti aggressività viene dal latino ad-gredior che significa “andare verso” (un obiettivo), “avvicinarsi”, ma in alcuni casi – pensiamo al tema dell’ingaggio – anche “intraprendere”, “cominciare” e simili.
Agonismo e “potere personale”
Abbiamo detto che i nostri giovani ci sembrano difettare, limitatamente all’attività agonistica (in altre aree sono infinitamente più competenti di noi), in termini di autostima, di autoconsapevolezza delle cose che fanno, di come le fanno e del perché le fanno; sembrano difettare in termini di volizione, di ingaggio della lotta, di aggressività e di assertività.
Consideriamo però che l’autostima, l’autoconsapevolezza delle proprie azioni, la volizione e l’aggressività agonistica, come pure l’assertività (che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni, il proprio punto di vista), la perseveranza, la resilienza ecc., sono cose che si apprendono e si allenano.
Inoltre l’autostima, la motivazione, l’ingaggio della lotta ecc. poggiano su alcune dimensioni, su alcuni sentimenti, che vanno riconosciuti, evidenziati, rafforzati: non è sufficiente il riferimento all’agonismo, all’aggressività, all’autoefficacia, anche in sciatori di livello o in professionisti, per innescare un processo d’integrazione a lungo termine.
Puntare sulla sola componente agonistica e prestativa senza tenere in debito conto le altre dimensioni di crescita affettiva, relazionale-sociale, comunicativa ecc. significa, per iperbole, non integrare e anzi dis-integrare l’autoefficacia dall’autostima, il saper fare, dal saper essere e divenire.
Ma quali sono i sentimenti portanti dell’agonista, quelli che possono permettere ai nostri giovani di recuperare o rafforzare la consapevolezza di sé, del proprio potenziale; di rafforzare centratura, volontà d’ingaggio della lotta e lotta, volontà d’eccellere, ossia di agire comportamenti non usuali e in qualche modo diversi, qualitativamente, da quelli ordinari?
Se provate a chiedere ai vostri ragazzi negli sci club, o ai vostri figli che praticano agonismo quali siano i valori sui quali poggia la loro motivazione, o non capiranno la domanda e faranno confusione tra motivazione e valori, oppure ricondurranno queste motivazioni al solo aspetto tecnico, pure importante ma insufficiente.
Diranno ad esempio che sono nello sci club per sciare meglio e raggiungere alcuni obiettivi di prestazione, oppure, in forma più easy, per stare con gli amici, fare esperienze lontano da casa, divertirsi. Raramente qualcuno farà riferimento alla crescita personale, ma in particolar modo raramente qualcuno di loro saprà disarticolare la “crescita personale” in fattori costituenti, capaci di diventare obiettivi di percorso.
Siamo tutti d’accordo che nel nostro sport, non solo nel professionismo, la testa – come si dice in gergo – fa la differenza; ma quando, come, perché si struttura un carattere e una mentalità performante, rimane una questione aperta e per lo più gestita empiricamente: allenarsi, fare gare, fare buoni risultati o accumulare delusioni, sconfitte, di per se stesso è o dovrebbe essere strumento di crescita emotiva… come sappiamo qualche volte succede, ma se pensiamo ai grandi numeri, ai quali pure dovremmo fornire risposte qualificate, non succede.
Restituire potere ai giovani: la valutazione promozionale
Abbiamo sviluppato in alcuni nostri articoli, questa stagione, sulle pagine Scimagazine, il tema del “potere personale” o self-empowerment; concetto che, a seconda dei casi, è declinato sia come processo, che come sentimento o percezione, o ancora come azione.
Ad essi rimando per un’introduzione al tema e per una migliore comprensione e collocazione delle cose che andremo dicendo. V. il terzo, il quarto e il quinto dei nostri articoli titolati, rispettivamente: Lo sciatore “potente”: ripensare il mentale nello sci alpino; Lo sciatore “potente” 2: un profilo; Lo sciatore “potente” 3: note critiche alla individualità https://www.scimagazine.it/?s=Enrico+Clementi
Prima ancora di ingaggiare la lotta, di sviluppare potere personale, di sentirsi “in grado di”, i nostri giovani hanno l’urgenza di recuperare pensabilità positiva e prospettiva, ossia credere che qualche cosa sia possibile.
Il termine “possibilità” viene dal lat. possibilĭtas, possibĭlis: possibile, posse ed indica appunto potere, capacità o facoltà di tendere a qualcosa, di farla e possibilmente di portarla a termine con esito positivo.
Ai nostri giovani, ancor prima che motivazione e aggressività agonistica, manca questa connessione, questo rapporto al senso di possibilità, alla visione, al desiderio, al sentimento di speranza (hopefulness), in opposizione al timore, alla timidezza endemica, alle paure di esprimersi – anche agonisticamente – per quel che si è e che si ha.
Per lavorare nella direzione dell’apertura di nuove possibilità, l’approccio del self-empowerment suggerisce alcuni step, che vanno evidenziati e assunti a direttrici di lavoro:
- contattare (o riattivare?) quella parte di sé aperta al desiderio, che è un motore che attiva e allo stesso tempo una bussola che orienta le nostre azioni;
- saper creare e tutela scenari possibili, ossia una visione positiva di quella che andrà a configurarsi come “possibilità realizzata”;
- saper attingere a tutte le risorse lecite, interne ed esterne alla persona, e quindi consapevolezza, autoconsapevolezza di potenzialità, limiti, caratteristiche, richieste ecc.;
- riuscire a contenere negli effetti alcuni meccanismo limitanti o ostacolanti su cui a volte ognuno di noi si arena (killer e de-killering): paure, dubbi, incertezze bloccanti, convinzioni su sé o su come vanno le cose, automatismi della persona (insicurezza, arroganza, impazienza, ipercriticismo ecc.).
Aprirsi una nuova possibilità è spesso reso attuabile attraverso un approccio votato alla sperimentazione, al provare, all’esplorare, prima ancora che al discriminare o allo scegliere.
Sperimentare, provare, esplorare, implicano però fallimenti, errori, fasi di stallo e di latenza ampie, regressioni e avanzamenti non del tutto chiari e prevedibili. In questo lavoro paziente di accettazione e impegno, come adulti, dovremmo aiutare i nostri atleti; nella certezza che ognuno di loro, in accezione positiva, può più di quanto siamo in grado di valutare e supporre.
Un’attività educativa e formativa che promuova benessere, che faciliti gli apprendimenti, che rafforzi le risorse individuali, che sviluppi quelle competenze che certamente non garantiscono, ma aumentano la possibilità di vivere bene la propria condizione attuale e futura (si parla spesso di tutela degli atleti nel post-agonismo), è tale relativamente al contenuto, alla metodologia, ma soprattutto ai criteri di valutazione.
È opportuno quindi domandarsi: esiste, nello sci alpino, una valutazione promozionale, una valutazione cioè che permette lo sviluppo delle risorse positive della persona e non vada, invece, a rafforzare l’immagine negativa o insoddisfatta?
L’esperienza sul campo e le attività nelle categorie giovanili, ma anche la formazione, ci hanno convinti di sì; a patto che vengano rispettate alcune indicazioni metodologiche che talvolta rappresentano – pur nella loro semplicità – un vero e proprio ribaltamento della tradizione pratica valutativa. (Per approfondimenti vedi S. Gheno, La formazione generativa. Un nuovo approccio all’apprendimento e al benessere delle persone e delle organizzazioni,2010)
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com
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