di Enrico Clementi e Claudio Ravetto
Lo sci alpino italiano ha una tradizione consolidata, radicata nella storia e nell’identità sportiva del Paese. Dai tempi della “Valanga Azzurra” negli anni ‘70, con atleti come Gustav Thöni e Piero Gros, fino alla “Valanga Rosa” degli anni ‘90 con Deborah Compagnoni e Isolde Kostner, il successo si è spesso costruito attorno alla logica della squadra. L’appartenenza a un gruppo vincente era non solo una garanzia di crescita tecnica, ma anche un collante psicologico e motivazionale.
Oggi, però, questo modello collettivo sta lasciando spazio a una crescente individualizzazione dei percorsi agonistici, con la nascita di team privati che offrono programmi personalizzati. Un caso emblematico, spesso citato, è quello di Lara Colturi, che ha scelto di uscire dal sistema federale per costruire un percorso su misura, ottimizzando tempi e risorse. Tuttavia tale approccio non è generalizzabile: il sistema sciistico italiano ha una base numerica ampia e strutture pensate per sostenere un gran numero di atleti. La sfida è trovare un equilibrio tra questi due modelli, senza misconoscere la tradizione, ma, come si dirà d’appresso, aggiornandola alle nuove esigenze.
Specializzazione precoce: necessità o rischio?
Il discorso sulla specializzazione precoce nello sci alpino merita un approfondimento. A differenza di altri sport, lo sci presenta limiti oggettivi di “quantità di pratica”, legati alla stagionalità e alla logistica. Questo rende difficile sviluppare un volume di allenamento adeguato per favorire apprendimenti multilaterali, e in alcune fasi dello sviluppo, si rischia di perdere finestre temporali preziose per consolidare competenze motorie fondamentali.
L’esempio della Norvegia, spesso citato per la sua filosofia orientata al gioco e alla polivalenza, va considerato nel contesto: i giovani sciatori norvegesi hanno accesso quotidiano alla neve, cosa che in Italia è un’eccezione. Per molti giovani atleti italiani (anche la demografia del target è cambiata, rispetto al passato), il tempo effettivamente trascorso sugli sci è ridotto, e questo implica una “specializzazione involontaria”, in cui la priorità diventa ottimizzare le poche giornate disponibili piuttosto che diversificare.
La specializzazione precoce nello sci alpino è spesso vista negativamente, associata a rischi come il burnout e l’abbandono sportivo. Tuttavia, le evoluzioni tecnologiche e metodologiche hanno portato a un abbassamento dell’età della prestazione di picco, rendendo la specializzazione anticipata quasi inevitabile per chi aspira all’alto livello. Atleti giovanissimi, emergono rapidamente grazie alla loro familiarità con materiali avanzati e all’accesso precoce a programmi di allenamento evoluti. Questo fenomeno mette in discussione modelli tradizionali di sviluppo a lungo termine, suggerendo la necessità di rivedere i percorsi formativi per adattarsi alle nuove esigenze dello sport moderno. Cfr. https://enricoclementi.it/labbassamento-delleta-della-peak-performance-nello-sci-alpino-la-rivoluzione-dei-tech-riders/
L’evoluzione tecnica: da una visione “romantica” allo sci moderno
Lo sci sciancrato, negli anni Novanta, ha portato a un’evoluzione tecnica e atletica radicale e a un cambio di assetti negli equilibri della squadra e di mentalità. È stato un cambiamento epocale (che spesso Rocca nelle sue interviste analizza con grande lucidità), che potremmo paragonare a quello del passaggio dal palo fisso allo snodato, e al riassesto tecnico-tattico che questa evoluzione ha generato.
Lo sci sciancrato comporta:
- Maggiori vincoli biomeccanici.
- Aumento delle forze esterne e delle velocità.
- Maggiori richieste fisiche e atletiche.
- Assunzione diversa del rischio, ricerca ponderata del limite, ricollocazione dell’infortunio (nella sua maggiore incidenza) nel percorso dell’atleta. Cfr. https://enricoclementi.it/assunzione-del-rischio-e-prevenzione-degli-infortuni-nelle-categorie-giovanili-dello-sci-alpino/
Questo spostamento rende lo sci sempre più vicino a uno sport di potenza e reattività, riducendo la componente “romantica” legata all’interpretazione del gesto, allo stile, e privilegiando la preparazione fisica specifica. E questo fin da giovane età, se le attrezzature sono quelle in uso.
Un discorso coerente, allora, sarebbe quello di limitare l’evoluzione tecnologica e quindi tecnica dello sci, cosa che in parte avviene per il sistema di regole vigenti, a favore della sicurezza e della longevità dell’atleta. Come evidente, entrano a questo punto in gioco tante variabili che sono di tipo economico, normativo, ma anche psicologico, nel concepire il rischio, la ricerca del limite, come componenti chiavi della motivazione nello sport d’alto livello.
Individualizzazione dei programmi di allenamento: un equilibrio tra quantità e qualità
Nello sci alpino, la programmazione dell’allenamento richiede un delicato equilibrio tra quantità e qualità. La quantità rappresenta la base fondamentale, poiché la ripetizione costante del gesto tecnico è essenziale per uno sport così complesso. Tuttavia, l’individualizzazione dei programmi è cruciale per adattare l’allenamento alle specifiche esigenze di ogni atleta, considerando il loro grado di sviluppo, stato fisico e mentale, e altri fattori come eventuali infortuni.
L’individualizzazione facilita l’acquisizione di abilità specifiche, perché una programmazione di gruppo deve necessariamente scendere a compromessi. Questo spiega come alcuni risultati, specialmente nelle discipline tecniche, emergano da piccole nazionali, piuttosto che da squadre strutturate. Lo sci alpino è uno sport di vertice, per pochi, e questa tendenza è destinata ad accentuarsi.
Logiche di finanziamento e accesso all’alto livello: dai finanziamenti “a pioggia” agli aiuti mirati
L’argomento precedente conduce diretti a una problematica sovente dibattuta, ma che non trova risposta nei grandi numeri, ossia quella del ricambio generazionale e dei costi per gli atleti che puntano all’alto livello. Fondamentale, quindi, l’individuazione, selezione e crescita dei talenti (scouting), non parcellizzando le risorse o distribuendole “a pioggia”.
Perimetrando la base sociale si crea una élite performante, o atleti vincenti, ma non a scapito della base sociale ampia, che continuerà a praticare dello sport, finalizzato diversamente; e con aperture anche significative, ma ponderate, al mondo delle professioni della neve: fare il corso maestri, o acquisire la qualifica da allenatore, non è un modo per “dare un senso” a un percorso da atleta più o meno riuscito o soddisfacente, ma un’opportunità di crescita personale e professionale importante, alla quale va restituito significato.
Quanto alle difficoltà di ricambio, va anche detto che Francia, Austria, Svizzera sono anch’esse in difficoltà. Hanno risultati nelle discipline veloci, perché in quelle contano le risorse, l’organizzazione, e la Svizzera ha gli unici ghiacciai dove fare velocità. Ma nelle retroguardie, ai mondiali Juniores, c’è comunque apprensione, perché non hanno giovani in arrivo: questo significa che il sistema delle federazioni sta in parte saltando, perché si va verso qualche cosa di diverso. Ma non è un problema solo italiano, come si tende a credere o a dire, ma è un problema dello sci mondiale.
Prospettive Future
Lo sci alpino italiano si trova di fronte a un bivio storico, e la sua sostenibilità futura dipenderà dalla capacità di reinterpretare il sistema attuale con logiche nuove. Non si tratta di preservare l’esistente, ma di accettare che il modello tradizionale, basato su un’organizzazione federale centralizzata, non è più in grado di rispondere alle esigenze dello sport contemporaneo.
In questo scenario, gli sci club non potranno più essere l’unico motore dello sviluppo giovanile, ma dovranno differenziare le proprie funzioni: alcuni orientati alla pratica sportiva di base, altri specializzati nell’alta prestazione con standard professionali orientati diversamente; oppure entrambi le offerte, attività sportiva e orientamento all’alto livello, con uno staff dedicato alle fasi di transizione, come già proposto da alcune organizzazioni. Il professionismo andrà progressivamente a distinguersi dal modello federale, come già si assiste in altri sport, e gli atleti di vertice seguiranno percorsi sempre più autonomi, supportati da team privati e investitori esterni.
A scanso di equivoci, va precisato che la formazione di base è altrettanto complessa che quella specifica, e che fare proposte qualificate per i grandi numeri, richiede competenze educative e visione, tanto quanto accompagnare un talento (ma forse di più) verso l’alto livello.
Questa transizione non sarà né immediata né indolore, ma è già in atto: l’evoluzione della tecnologia, una gestione forse inedita del rischio, i cambiamenti nei modelli di finanziamento e il ruolo crescente delle aziende nello sport stanno già ridefinendo il panorama dello sci mondiale. Se lo sci alpino italiano saprà adattarsi e anzi anticipare questa rivoluzione, potrà mantenere un ruolo centrale sulla scena internazionale. In caso contrario, rischia di perdere progressivamente competitività, numeri e interesse, sia dal punto di vista sportivo che mediatico.
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