Siamo al volgere di una stagione agonistica e come ogni anno, dirigenti, allenatori di sci club e squadre agonistiche, sono in fase di bilancio e riprogrammazione.
Una delle questioni più complesse da trattare e dibattute nelle categorie giovanili, è senza dubbio quella che riguarda il rapporto tra prestazione e aspetti educativi.
Sembra infatti difficile assumere la crescita personale di un giovane atleta nella sua globalità (cosa sovente demandata a scuola e famiglia) e nello stesso tempo occuparsi di preparazione sportiva e agonismo.
È riconosciuto che fondamentale per ogni programma di attività giovanile sia curare, oltre alla prestazione e allo sviluppo personale, la partecipazione: è questo il modello delle 3 P (performance, partecipation, personal develpment) ideato da Jean Côté e denominato “Developmental Model of Sport Partecipation” o DMSP.
Sappiamo che un modello è tale perché rappresentabile, trasmissibile, ma sappiamo pure che esso è una semplificazione, tendenzialmente riduttiva, del fenomeno che s’intende rappresentare.
Gli obiettivi di partecipazione, crescita personale e prestazione, sono obiettivi che ogni organizzazione sportiva e ogni sci club si pongono; semmai il discrimine è tra quanti assumo questa triade in modo consapevole e la traducono in obiettivi e azioni, e chi al contrario persegue queste stesse finalità in modo empirico.
Resta il fatto che non è semplice tenere insieme queste finalità e che sovente l’aspetto prestativo, il risultato pubblico, prendono il sopravvento su istante d’altro tipo, limitando l’azione propriamente educativa (skills comunicative, relazionali, sociali ecc.), ma soprattutto la partecipazione.
Quindi, molti sci club e tra questi certamente i più “performanti”, affrontano la sfida di decidere quali attività enfatizzare, come ad esempio una specializzazione precoce diretta allo sviluppo del talento, a scapito di una diversificazione delle attività mirate ad incrementare la partecipazione alla pratica sportiva.
Gli interrogativi su quali siano gli obiettivi dello sport giovanile nello sci alpino e su come possano essere raggiunti, sono questioni che dirigenti della FISI, allenatori, genitori e altre figure professionali, tentano con fatica di definire e su cui a stento trovano accordo.
Siedentop ad es. (2002) ha suggerito 3 obiettivi primari, che sono:
- quello di sviluppo dell’élite;
- quello di salute pubblica;
- l’obiettivo educativo.
Accanto ad essi potremmo bene aggiungere, in specie se valorizziamo la P di partecipazione:
- l’aumento della motivazione soggettiva nello svolgimento della pratica sportiva (motivazione intrinseca);
- la riduzione del burnout/abbandono dell’agonismo in età giovanile.
Ci sono comunque evidenze della pratica sul campo che ci permettono di dire che tali obiettivi sono presenti in nuce in molti sci club; ad es. là dove si vede lo sport giovanile come step iniziale dei programmi di sviluppo del talento, mirati allo sviluppo della prestazione degli atleti di élite (Ford et al. 2009).
Tali programmi sono caratterizzati dall’obiettivo “a lungo termine” del risultato pubblico, preparato e mediato da obiettivi riguardanti l’allenamento (imparare ad allenarsi, allenarsi all’allenamento), piuttosto che la competizione (allenarsi a competere).
Sfortunatamente questo avviene spesso a scapito della gratificazione a breve termine e del divertimento, con conseguenti ricadute sul benessere del giovane atleta, demotivazione e abbandono precoce.
Ricordiamo che il modello didattico della FISI-STF, con il SALT (Sviluppo dell’Atleta a Lungo Termine), va in questa direzione; salvo le incongruenze riscontrabili nel circuito gare giovanili, dove il risultato cronometrico determina la partecipazione ad alcune competizioni, piuttosto che l’assegnazione dei c.d. “gruppi di merito”.
Alcuni ricercatori evidenziano che la natura conflittuale di alcuni obiettivi non li rende perseguibili all’interno di un unico programma (Siedentop 2002), e che questi obiettivi dovrebbero essere posti all’interno di programmi diversi.
Pure se da tenere presente la possibile conflittualità degli obiettivi e la conseguente adozione di programmi diversi, mi sembra che il punto, a partire dal sistema delle 3 P, sia quello di definire bene cosa siano “prestazione”, “partecipazione”, “sviluppo personale”.
Ci sono sempre maggiori evidenze sul fatto che i programmi giovanili possano perseguire tutti e 3 gli obiettivi, riuscendo a sviluppare prestazioni di abilità, mantenendo i tassi di pratica e accompagnando adeguatamente la crescita personale.
A seguire una breve disamina di questi punti.
1. Prestazione
In molti sport si realizzano programmi di specializzazione, in cui i bambini sono individuati e selezionati in giovane età per gareggiare e raggiungere un alto livello di prestazione. Ad es. i club sportivi professionistici inglesi continuano ad investire risorse ingenti nel tentativo di individuare in giovane età atleti di talento.
Le risorse umane e fisiche investite in questi programmi sono considerevoli, dato che i giovani sono visti come un “potenziale grezzo” che ha bisogno di essere sviluppato.
Le letteratura sulla selezione e l’identificazione del talento nello sport, tuttavia, mostrano che la possibilità di individuare atleti di talento nel lungo termine sia molto scarsa, specialmente quando la selezione del talento viene effettuata durante i periodi di crescita prepuberale o puberale (ad es. Vaeyens et al. 2009).
Un interessante studio che analizza in maniera particolare la difficoltà dell’identificazione e previsione del talento, è stato condotto con giocatori di hockey su ghiaccio in Canada. Parcels (2002) ha studiato le possibilità di raggiungere lo status di atleta di élite nell’hockey su ghiaccio, cioè di giocare nella National Hockey League.
Si è notato come il passaggio dall’hockey su ghiaccio giovanile alla lega professionistica sia estremamente raro: su un totale di 33.000 maschi nati nel 1975 che erano iscritti all’Ontario Minor Hockey Association, appena 6 soggetti (il 0,01%) sono riusciti a giocare nella NHL per almeno 5 stagioni.
Con delle probabilità di successo così basse, è comprensibile che la previsione dello stato di élite nello sport giovanile sia poco affidabile.
Un modello relativo all’attività giovanile molto conosciuto è quello di Ericsson et al. (1993). Tale modello mette al centro il concetto di “pratica deliberata”. Questa è definita come un’attività di alta qualità, di alta concentrazione, non è intrinsecamente divertente e viene fatta con l’obiettivo primario di migliorare la prestazione.
I programmi basati sulla “pratica deliberata” che sono stati divulgati in libri come Outliers (Gladwell 2008) e il Talent Code (Coyle 2009), suggeriscono che per raggiungere il livello più alto di prestazione, ci si debba impegnare per 10.000 ore o 10 anni di sistematica attività nel proprio specifico sport.
In sostanza, la struttura propone che gli atleti di élite debbano specializzarsi nel loro sport principale e iniziare la “pratica deliberata” ad un’età molto giovane.
Mentre ci sono alcune ricerche sportive, che confermano un rapporto positivo tra l’allenamento di “pratica deliberata” e la prestazione di élite (ad es. Hodges e Starkes 1996, Starkes et al. 1996, Helsen et al. 1998, Hodge e Deakin 1998); al contrario molti elementi della teoria della “pratica deliberata” non sono stati confermati (Abernethy et al. 2003).
Infatti pochi studi hanno mostrato che 10.000 ore di “pratica deliberata” siano realmente un prerequisito per la prestazione sportiva esperta; al contrario, vari studi mostrano che la prestazione esperta negli sport, in cui generalmente la prestazione avviene dopo l’età di 20 anni, è stata raggiunta dopo 3000-4000 ore di allenamento specifico in quello sport (Côté, Abernethy 2012).
Quindi, i programmi sportivi specializzati per bambini in giovane età (dai 6 ai 12 anni) non sono necessari per sviluppare atleti di élite nella maggior parte degli sport. Invece, offrire l’opportunità a tutti i bambini di partecipare a varie forme di sport informali e sport ricreativi organizzati dovrebbe essere il punto centrale dei programmatori sportivi.
In altre parole, la diversificazione (invece della specializzazione) durante la prima fase di pratica sportiva ha un effetto positivo sulla pratica sportiva a lungo termine, ma anche sulla futura prestazione di élite (Côté et al. 2009).
2) Partecipazione
Accanto alla prestazione, occorre analizzare anche la seconda finalità del modello DMSP, la partecipazione, cioè il corretto coinvolgimento nella pratica sportiva “a lungo termine” dei giovani atleti.
La pratica sportiva rappresenta una delle attività più popolari per i bambini. Uno studio dell’ESPN ha rilevato la popolarità dello sport giovanile, evidenziando che 25 milioni di giovani avevano praticato qualche forma di sport ricreativo negli anni precedenti.
Approssimativamente il 60% di giovani maschi e il 50% di ragazze erano iscritti in almeno una squadra organizzata all’età di 6 anni.
Se si ipotizza che i programmi sportivi giovanili ricreativi debbano portare ad una pratica dello sport che duri per tutta la vita, il tasso di abbandono durante l’adolescenza è allarmante.
Infatti si stima che circa un terzo dei partecipanti tra i 10 e 17 anni abbandonano la pratica sportiva ogni anno (Gould 1987, Kelley, Carchia 2013).
Una delle questioni chiave per chi opera nel settore deve essere quella di lavorare insieme per fare in modo che i giovani facciano esperienze positive piuttosto che negative nello sport, riducendo quindi il tasso di abbandono e creando un supporto alla pratica a lungo termine.
A causa dei potenziali benefici economici derivanti dal raggiungere lo sport di alto livello, i programmi di sport giovanile in tutto il mondo stanno adottando una visione dello sport che indirizzi l’attenzione sullo sviluppo dell’atleta di élite (Collins 2010, Côté et al. 2011).
Questi programmi si fondano quindi sulla ricerca del risultato, la selezione precoce e la specializzazione precoce, invece di concentrarsi sul divertimento intrinseco a breve termine che deriva dalla prativa sportiva.
I programmi sportivi ricreativi di oggi supervisionati da adulti richiedono investimenti sempre maggiori rivolti a bambini sempre più giovani (Ewing e Seefeldt 1996, Hancock et al. 2013).
Tali programmi focalizzano l’attenzione su alcuni aspetti della pratica sportiva, come ad esempio lo sviluppo di alcune abilità tecniche, che non coincidono con le motivazioni che spingono ragazzi e giovani a praticare uno sport.
A questa età invece i bambini sono molto più interessati a divertirsi, a creare relazioni, a fare nuove esperienze, a sperimentarsi in contesti diversi e ad utilizzare l’ambiente sportivo come “palestra” per conoscere se stessi.
3) Sviluppo personale
Il terzo obiettivo del nostro modello riguarda lo sviluppo personale, cioè quanto l’attività sportiva possa essere strumento per migliorare alcune competenze nei giovani che possono poi essere utilizzate anche fuori dallo sport.
Alcuni programmi sportivi (First Tee, Teaching Personal and Social Responsibility in sport programme e il programma SUPER) sono esplicitamente progettati per insegnare le c.d. life skills, dove gli atleti imparano elementi importanti per la loro crescita personale, relazionale e sociale, e viene loro esplicitamente insegnato come trasferire tali elementi ad altri contesti di vita.
Tuttavia, se lo sport è percepito come supporto allo sviluppo personale in altri ambiti, c’è il rischio di misconoscere il valore della pratica di uno sport in accezione agonistica e la nozione stessa di sviluppo “a lungo termine” (Turnnidge et al. 2014).
Un focus esclusivo del programma sportivo sullo sviluppo personale, per quanto apparentemente oculata e lungimirante, è una decisione adulta che non coincide necessariamente con la motivazione dei bambini a praticare sport.
Il vantaggio di un ambiente diversificato e ludico nello sport durante l’infanzia è rappresentato dal fatto che esso fornisce ai giovani atleti un’ampia varietà di esperienze che enfatizzano l’esplorazione del proprio impegno in una specifica attività sportiva.
Le evidenze empiriche (Busseri et al. 2006, Fredricks, Eccles 2006, Rose-Krasnor et al. 2006) mostrano che un’ampia varietà di esperienze nella prima fase di sviluppo – si parla di multidisciplinarità – è un indicatore di impegno continuo in attività più intense per il resto della vita e di sviluppo positivo di risorse personali, come la competenza e la fiducia in sé stessi, piuttosto che un senso di autoefficacia diffuso.
Inoltre, i programmi sportivi giovanili costruiti sui concetti di diversificazione e gioco hanno un effetto protettivo contro esiti negativi come il burnout, l’abbandono e gli infortuni (Wall, Côté 2007, Fraser-Thomas et al. 2008, 2008, Law et al. 2007).
Le esperienze e le opportunità che lo sport fornisce non sono differenti da altre situazioni di vita e quindi è ragionevole supporre che un ambiente positivo sia la maniera migliore per promuovere lo sviluppo giovanile attraverso la pratica sportiva.
[…]
Attraverso alcuni studi basati sulla “citation analysis”, il Developmental Model of Sport Participation (DMSP) messo a puntoda Côté rappresenta meglio la concettualizzazione più importante nella letteratura sportiva sullo sviluppo dell’atleta (Bruner et al. 2009, 2010).
Il DMSP è stato sviluppato e perfezionato negli ultimi 15 anni e presenta una serie di concetti sullo sviluppo dell’atleta, che sono quantificabili e testabili.
Al contrario di esso sorprende che il modello di sviluppo dell’atleta a lungo termine (Long-Term Athlete Development, LTAD; Balyi e Hamilton 2004) non appare in queste review globali; questo nonostante la sua diffusa implementazione in molte nazioni e dalla sua adozione da parte di molte federazioni, FISI inclusa.
La mancanza di ricerche sul LTAD rinforza il suo status di prodotto più commerciale che scientifico, proprio perché non supportato da alcuna significativa evidenza.
Infatti, il LTAD è stato originariamente sviluppato come un modello di prestazione di élite basato sui principi dello sviluppo motorio per età ed è stato modificato negli anni per adattarsi all’agenda di varie organizzazioni sportive e di politiche governative.
La versione più recente del LTAD contiene varie affermazioni sullo sviluppo dell’atleta che sono spesso contrastanti e che non sono mai state testate in contesti sportivi specifici (Bailey et al. 2010; Ford et al. 2011; Malina 2013).
[…]
Il DMSP è stato sviluppato in una serie di 4 step.
Il primo step implicava una concettualizzazione iniziale dello “sviluppo dell’atleta” risultante da interviste con genitori, allenatori e atleti (Côté 1999).
Questo modello originale era in linea con i risultati di altri studi qualitativi sullo sviluppo degli atleti (Bloom 1985, Carlson 1988), fornendo contemporaneamente suggerimenti espliciti ed originali, che possono essere quantificati e testati empiricamente.
Due nuovi concetti riguardanti il coinvolgimento nello sport per tutto l’arco della vita sono emersi da questo primo step: “diversificazione” e “gioco deliberato”.
Il concetto di diversificazione descriveva un livello di coinvolgimento in differenti sport durante l’infanzia. Infatti, studi retrospettivi su atleti di élite supportavano l’idea che essere coinvolti in differenti sport durante l’infanzia era associato ad una pratica a lungo termine e allo sport di alta prestazione (Berryetal 2008; Gulbinetal 2010; Leite, Sampaio 2010; Bridge, Toms 2013).
Il concetto di “gioco deliberato” era stato descritto da atleti di élite (Côté 1999) come attività sportive in cui essi si impegnavano durante l’infanzia, intrinsecamente divertenti e che rappresentavano un’attività diversa dallo sport organizzato e dalle pratiche condotte da adulti come la “pratica deliberata”.
Attività che esemplificano il “gioco deliberato” includono lo “street hockey” e l’1c1 del basket. Questi giochi usano regole adattate degli sport tradizionali e sono scarsamente monitorati e controllati dagli adulti.
Al contrario, la “pratica deliberata” richiede sforzo, non genera una gratificazione immediata ed è motivata dall’obiettivo di migliorare la performance piuttosto che produrre un divertimento intrinseco (Ericsson et al. 1993).
Il concetto di diversificazione e “gioco deliberato” sono gli elementi principali del DMSP, che è articolato in tre stadi di sviluppo:
- una fase di prova (età: 6-12);
- una fase di specializzazione (età: 13-15);
- una fase di investimento (età: 16+).
In un secondo step è stata sviluppata una metodologia quantitativa, retrospettiva su parecchi anni (Côté et al. 2005) per testare i presupposti del DMSP.
Più specificamente, si volle attraverso l’analisi dei tre stadi valutare l’importanza della diversificazione contro la specializzazione ed il contributo del “gioco deliberato” in contrapposizione della “pratica deliberata”.
Una serie di studi è stata condotta usando questa metodologia con gruppi di atleti esperti e non-esperti (ad es. Baker et al. 2003, 2003, 2005; Soberlak, Côté 2003; Law et al. 2007; Berry et al. 2008) per perfezionare il DMSP e fare chiarezza sui differenti obiettivi e percorsi.
Questi studi hanno mostrato che la diversificazione e il gioco deliberato durante l’infanzia sono importanti attività di sviluppo associate all’expertise (prestazione) e alla perseveranza nello sport a lungo termine (partecipazione).
Il passaggio alle fasi di specializzazione in uno o due sport, accompagnato da maggiori quantità di “pratica deliberata”, si verifica di solito all’età approssimativa di 13 anni.
Questo viene seguito, 2-3 anni dopo, da un grande investimento e da una grande quantità di “pratica deliberata” in un singolo sport.
Questi risultati sono coerenti nei vari sport, in cui la prestazione di picco viene raggiunta dopo la maturità, come l’hockey su ghiaccio, il baseball, il canottaggio e il triathlon, lo sci; ma non sono confermati negli sport in cui la prestazione di picco viene raggiunta durante l’adolescenza, come la ginnastica (Law et al. 2007).
Seguendo questo insieme di conoscenze, il DMSP è stato adattato per illustrare i diversi percorsi di sviluppo.
Un nuovo percorso di “specializzazione precoce” è stato aggiunto al DMSP per avvicinarsi al modello a tre stadi della “prova”, “specializzazione” e “investimento”.
Inoltre, una fase di “pratica ricreativa” è stata aggiunta per permettere la scelta che gli atleti possono fare dopo gli anni di prova; cioè, la possibilità per ciascun giovane di poter scegliere di avviarsi verso una fase di pratica ricreativa, oppure optare per una fase di specializzazione in un determinato sport.
Per il terzo step del perfezionamento del DMSP, il metodo retrospettivo è stato adattato ed utilizzato per confrontare le attività, le esperienze e i risultati degli atleti, che hanno intrapreso i differenti percorsi del DMSP (Robertson-Wilson et al. 2003; Wright, Côté 2003; Wall, Côté 2007; Fraser-Thomas et al. 2008; Strachan et al. 2009).
Côté e Abernethy (2012) hanno rivisto e discusso i risultati di questa terza serie di studi ed hanno evidenziato i benefici della diversificazione e del “gioco deliberato”, come anche i costi associati ad un percorso di precoce specializzazione.
I benefici della diversificazione e del “gioco deliberato” sono rappresentati principalmente dall’essere un ostacolo al logoramento sportivo, riducendo il burnout, limitando gli infortuni da stress e incrementando il divertimento.
Al contrario, la specializzazione precoce incrementa il burnout, aumenta gli infortuni da sovraccarico e riduce il divertimento.
Inoltre, la diversificazione e il “gioco deliberato” possono offrire contributi unici allo sviluppo dell’abilità attraverso un apprendimento che potremmo definire implicito.
Infine, un quarto step si è occupato del perfezionamento del DMSP, creando specifici collegamenti tra i differenti percorsi e gli obiettivi di prestazione, pratica e sviluppo personale.
A seguito del perfezionamento del modello, Côté è stato in grado di riassumere in sette postulati il ruolo dei due concetti base del modello: diversificazione e gioco deliberato (Côté 2009; Côté et al. 2009).
Di seguito vengono riportate alcune note sui sette postulati del DMSP, frutto degli studi di Coté e contenuti in una review pubblicata su International Journal of Sport Policy and Politics nel 2016.
1. […] la diversificazione precoce non preclude la pratica sportiva di sport in cui la prestazione di picco viene raggiunta dopo la maturazione.
2. […] la diversificazione precoce è associata ad una carriera sportiva più lunga e ha implicazioni positive per il coinvolgimento sportivo a lungo-termine.
3. […] la diversificazione precoce permette la pratica in una gamma di contesti che influenzano in maniera più favorevole lo sviluppo positivo dei giovani.
Il vantaggio di una pratica diversificata dello sport durante gli anni di prova è che essa fornisce ai giovani atleti un’ampia possibilità di esperienze, senza un’accentuazione troppo marcata sull’acquisizione dell’abilità e sulla prestazione in uno sport specifico.
Le evidenze empiriche (Busseri et al. 2006; Fredricks, Eccles 2006; Rose-Krasnor et al. 2006) mostrano che in questa prima fase una grande varietà di esperienze possa favorire uno sviluppo positivo in seguito.
Wright e Côté (2003) hanno mostrato che esperienze sportive diversificate nell’infanzia favoriscono positive relazioni tra pari e capacità di leadership.
Côté et al. (2009) in una review sostengono che i bambini che hanno fatto esperienza in vari sport sono stati anche esposti ad esperienze di socializzazione che ne hanno indirizzato lo sviluppo.
4. […] grandi quantità di “gioco deliberato” negli anni costruiscono una solida base di motivazione intrinseca, attraverso il coinvolgimento in attività che sono divertenti e promuovono la regolazione intrinseca.
La teoria dell’autodeterminazione (Deci, Ryan 1985; Ryan, Deci 2000) e la teoria dell’orientamento motivazionale (Biddle 2001, Treasure 2001) suggeriscono che le attività precoci intrinsecamente motivanti, come il “gioco deliberato”, producono nel tempo un effetto positivo sulla motivazione globale dell’individuo.
Fry (2001) rileva che l’orientamento motivazionale individuale sembra definirsi all’età di 12 o 13 anni.
Per promuovere una pratica motivata intrinsecamente per tutta la vita, è indispensabile costruire delle basi durante l’infanzia.
L’inserimento di grandi quantità di “gioco deliberato” nelle fasi iniziali della pratica fornisce corrette basi motivazionali.
Elementi a sostegno di ciò sono emersi dagli studi qualitativi sulle carriere degli atleti (Bloom 1985; Carlson 1988; Côté 1999) e da studi quantitativi sui curricula di atleti esperti e non-esperti (Baker et al. 2003, 2003, 2005; Soberlak, Côté 2003; Berry et al. 2008).
Inoltre, studi sull’abbandono degli atleti forniscono evidenze aggiuntive sul fatto che il “gioco deliberato” durante l’infanzia sia un aspetto determinante per una pratica continua e di impegno nello sport (Wall, Côté 2007; Fraser-Thomas et al. 2008, Fraser-Thomas, Côté 2009).
5) […] una grande quantità di “gioco deliberato” durante gli anni di prova determina una gamma di esperienze motorie e cognitive, che i bambini possono poi trasferire nello sport di loro principale interesse.
Gli studi qualitativi e quantitativi hanno dimostrato che grandi quantità di “gioco deliberato” nel tennis di élite (Carlson 1988; Côté 1999), nel canottaggio (Côté 1999), nell’hockey su ghiaccio (Soberlak e Côté 2003) e nel baseball (Hill 1993) erano associati alla prestazione di élite nell’età adulta.
Inoltre, i confronti basati su dati quantitativihanno dimostrato che i giocatori di élite avevano effettuato un maggior numero di ore di “gioco deliberato” rispetto alle ore di “pratica deliberata” durante l’infanzia (Berry et al. 2008; Memmert et al. 2010; Ford, Williams 2012).
Si è ipotizzato che lo sviluppo dell’adattabilità e della creatività promosso dalla libera sperimentazione in un ambiente sano e a basso rischio, sia un meccanismo che valorizza i benefici empiricamente registrati in attività di “gioco deliberato” sull’acquisizione di abilità e sulla prestazione (Côté et al. 2007).
6) […] i ragazzi verso i 13 anni dovrebbero avere l’opportunità di scegliere o di specializzarsi nello sport favorito o continuare uno sport a livello ricreativo.
Il passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza è il momento cruciale della pratica di un giovane sportivo; rappresenta un importante periodo per specializzarsi in una disciplina o continuare a praticare sport a livello ricreativo.
La specializzazione in uno sport generalmente non si verifica, né deve verificarsi prima dei 13 anni negli sport in cui il picco di prestazione viene raggiunto nell’età adulta.
Durante la fase di prova è importante offrire ai bambini una prospettiva motivazionale: la qualità delle esperienze dei primi apprendimenti attraverso la diversificazione e il “gioco deliberato” durante l’infanzia sviluppa non solo le competenze fisiche, ma anche la percezione di competenza.
Questa a sua volta porta alla motivazione verso una pratica continua, la prestazione e lo sviluppo personale (Bruner et al. 2011).
Le teorie sulla motivazione suggeriscono che la percezione di competenza dei bambini nella tarda infanzia (età 8-12 anni) è molto influenzata dal risultato del confronto con i loro pari. È solo verso l’età di 12 o 13 anni che i bambini sono capaci di comprendere pienamente gli effetti differenti che lo sforzo, la pratica e l’abilità hanno sulla loro prestazione (Horn, Harris 2002).
Dal momento che i bambini non vedono la competizione e la prestazione sportiva nello stesso modo degli adulti, gli allenatori non dovrebbero enfatizzare troppo la prestazione attraverso la “pratica deliberata”, il risultato pubblico o gli appuntamenti di gara “importanti” durante l’infanzia.
Infatti, dare troppa enfasi alla prestazione può portare ad una precoce stratificazione di livelli sportivi competitivi nei giovani; ciò potrebbe perpetuare “l’effetto dell’età relativa” (il vantaggio di prestazione per gli atleti nati all’inizio dell’anno di selezione; Musch and Grondin 2001).
Hancock et al. (2013) hanno fatto degli esempi riguardo a questa tendenza, scoprendo che i giovani giocatori canadesi di hockey su ghiaccio mostravano l’effetto dell’età relativa ai più giovani livelli di competizione (7 anni) in cui comincia la stratificazione.
Introducendo una precoce differenziazione in livelli, gli atleti non selezionati hanno meno possibilità di fare esperienze sia per quanto riguarda la competenza, sia la fiducia che la motivazione.
In sostanza, la motivazione di un bambino piccolo ad impegnarsi nello sport non è certamente favorita da una prematura stratificazione in livelli di qualificazione.
7) […] i giovani nella tarda adolescenza (verso i 16 anni) hanno sviluppato le abilità fisiche, cognitive, sociali, emotive e motorie, necessarie per investire i loro sforzi in un allenamento altamente specializzato in un singolo sport.
L’ultimo passaggio per chi intende raggiungere prestazioni di élite in un singolo sport è caratterizzato da un periodo intenso di allenamento.
Per quei pochi atleti dotati di talento, di capacità di impegnarsi e del potenziale per raggiungere lo status di élite, è importante entrare nella fase di investimento nel momento appropriato dello sviluppo.
Verso l’età di 12 anni, i bambini sono cognitivamente e fisicamente pronti a praticare sport agonistici; tuttavia, investire tutto in un solo sport richiede ancora qualche anno di maturazione (Patel et al. 2002).
Infatti molti studi indicano che l’età di 16 anni è il momento più adatto per iniziare ad incrementare le ore di “pratica deliberata” in un singolo sport e di limitare il coinvolgimento in altri sport (Helsen et al. 1998; Côté 1999; Kirk, Macphail 2003; Macphail et al. 2003; Baker et al. 2003, 2005).
Inoltre, le ricerche negli sport, in cui la specializzazione e l’investimento avvengono prima dei 16 anni (ad es. la ginnastica femminile e il pattinaggio artistico) hanno evidenziato parecchi esiti negativi, come più infortuni, e meno divertimento (Starkes et al. 1996, Law et al. 2007).