Per una pedagogia dell’errore. Popper, Einstein e l’ameba

È stato osservato che il piccolo dell’uomo, per effetto della sua riduzione negli istinti e per la sua struttura biologica, invero ridotta alla nascita, è costretto, a differenza degli altri animali, ad apprendere tutti quei gesti che gli saranno utili per continuare a vivere e per trovare una collocazione nel mondo.

Ma questo limite finisce per diventare un vero e proprio vantaggio per lui, in quanto ogni comportamento appreso non resta fine a se stesso: gli serve per apprendere altre cose, altri comportamenti e lo mette in condizione di acquisire l’abitudine ad apprendere; lo mette in condizione di imparare ad apprendere (Dewey, 1916).

L’uomo, tra gli esseri viventi, è l’unico che riesce a sentire l’insufficienza del suo equipaggiamento biologico, non solo, ma anche a riconoscerla, per avvertire la necessità di una compensazione (Rombach, 1969).

Questa consapevolezza consente all’uomo, per effetto dell’apprendimento, di sopravvivere come specie e di provvedere all’autoconservazione. L’essere umano, pertanto, proprio in virtù dell’apprendimento, è in grado di assumere un qualche comportamento di fronte ai fatti della vita; prende una posizione nei loro riguardi e in genere, anche se avversi, ha buone probabilità di fronteggiarli.

Nella ricerca delle radici antropologiche dell’apprendimento, non si può tralasciare di considerare, accanto agli apprendimenti pragmatici dell’esistenza, quell’insieme di atti di apprendimento trascendentali, che si identificano con la sua umanità; anzi che gli schiudono la via all’umanità, in qualunque modo possa poi decidere di comportarsi in questa sua condizione (Ivi).

Rivolto a soddisfare il duplice ordine di bisogni dell’esistenza, che si sostanzia di necessità biologiche e di slanci trascendentali, l’apprendimento non può essere considerato soltanto un atto di compensazione, ma diventa per l’uomo un mezzo per interpretare la sua esistenza e la sua coscienza: è un elemento esistenziale, vale a dire una di quelle costituenti fondamentali per la comprensione di sé nell’esistenza umana.

Come avviene però per tutte le espressioni e le costituenti fondamentali dell’esistenza umana, anche il processo di apprendimento, sia quello pratico che quello trascendentale, è accompagnato da tentativi ed errori, da sbagli e da buone intuizioni, da insuccessi e riuscite.

L’errore e il successo, in definitiva, appartengono alla specie umana e costituiscono entrambi fatti logici positivi, nel senso che rappresentano le esperienze attraverso le quali l’uomo forma il suo carattere e dai quali trae stimolo, energia per cogliere le soluzioni dei suoi problemi.

Fra i vari tipi di apprendimento, quello per prove ed errori (trials and errors) è comune all’animale e all’uomo.

Questa particolare forma di apprendimento consiste nel procedere, sul piano della conoscenza, come su quello del comportamento, muovendosi in modo cieco e a tentoni. Il soggetto si affida esclusivamente a prove, che comportano, ovviamente, di incorrere in errori, ignorando al momento i fattori di successo per lo svolgimento dell’azione.

Il soggetto che procede per tentativi, apprende passando da una prova all’altra, durante le quali elimina progressivamente gli errori e conferma i tentativi utili che, molto lenti all’inizio, si verificheranno in seguito con sempre maggiore facilità e sicurezza.

Secondo Karl Popper, il metodo per prove ed errori, che abitualmente viene adottato dagli organismi viventi nel processo di adattamento e dallo scienziato che, di fronte a un determinato problema, propone, a titolo di prova, un qualche tipo di soluzione-teoria, è essenzialmente un metodo per eliminazione.

Eliminazione di che cosa? È legittimo chiedersi. La risposta: degli errori di adattamento da parte degli organismi viventi, i quali in tal modo scelgono e fissano le condotte utili, dopo aver scartato quelle “parassite”, assicurandosi così la sopravvivenza e lo sviluppo.

L’eliminazione di una teoria erronea può, con un po’ di fortuna, aprire la strada ad una teoria più adatta a spiegare quel problema o quel fenomeno; e non lo farà mai definitivamente, ma fino a quando non si porranno in evidenza anche i suoi caratteri di vulnerabilità. (Popper, 1969)

Ad ogni buon conto, continua Popper, tutti gli organismi viventi utilizzano il metodo del tentativo e dell’errore, quando adattano il loro comportamento al cambiamento della situazione; ma precisa, subito dopo, che l’essere umano e l’animale hanno un diverso atteggiamento nei riguardi delle soluzioni sbagliate: l’uomo impara dai propri errori, l’animale ne rimane vittima.

Nel corso della sua vita Popper incontrò tre volte Einstein, le loro conversazioni furono in buona parte incentrate sulla concezione del tempo. Popper cercò di persuadere Einstein ad abbandonare il suo determinismo, che si riduceva ad una visione di un universo a quattro dimensioni chiuso e immutabile; una visione del mondo molto simile all’idea di Parmenide di un mondo che semplicemente è, e dove la coscienza conosce solo un divenire illusorio. Popper chiamò Einstein, Parmenide, e sembra che quest’associazione non dispiacesse affatto al padre della Relatività.

Einstein e l’ameba – scrive Popper nel suo Epistemologia, razionalità e libertà – procedono alla stessa maniera e cioè per prove ed errori, ma sono guidati nelle loro azioni da una diversa logica: Einstein cerca i propri errori, impara dalla loro scoperta ed eliminazione e grazie ad essi si avvicina alle proprie soluzioni assicurandosi la sopravvivenza, l’ameba muore a causa delle sue soluzioni sbagliate (Popper, 1972).

L’uomo, quindi, pur utilizzando lo stesso tipo di apprendimento degli animali, procede sul piano della conoscenza sorretto da un atteggiamento critico che gli permette di ravvisare le false soluzioni, di cogliere ed eliminare gli errori all’interno delle sue congetture, di sostituirle con altre, nuove e migliori di quelle confutate.

L’Einstein di Popper (quello dell’ameba) esclude le soluzioni sbagliate, invece di soccombere con esse; l’ameba perpetua tali soluzioni, non riuscendo ad operare una selezione critica o comunque rimanendo come impigliata nel comportamento appreso, subendone le conseguenze. 

Le riflessioni degli epistemologi richiamati, oltre ad indicare il ruolo che l’errore svolge nel processo di accrescimento della conoscenza, non mancano di sottolineare, esplicitamente o implicitamente, l’importanza che esso riveste nel processo educativo; ritenendo l’errore:

  • Normale, perché fa parte dell’esperienza e dell’attività dell’essere umano;
  • Positivo, perché con la sua incidenza permette di far giungere il soggetto a conoscenze più prossime al successo delle azioni;
  • Utile, perché lo mette in condizione di imparare dagli errori.

Tale pedagogia e prassi educativa – in contrasto con quella corrente, ad esempio scolastica, di tipo procedurale o deduttivo – sono improntate al dinamismo creativo, al pensiero divergente, alla cooperazione fattiva e sono basate sull’esperienza per tentativi: esperienza, cioè, volta alla ricerca di soluzioni soddisfacenti dei problemi, che la realtà e l’esistenza individuale e collettiva pongono continuamente (cfr. Freinet, 1963).

Su questa linea viene a porsi l’istanza pedagogica di Bruner, il quale nel rivalutare le capacità intuitive dell’individuo, quelle cioè che permettono di congetturare, formulare ipotesi anche azzardate per risolvere un problema, percependolo nella sua totalità, mette in guardia chi pensa in modo intuitivo; che può spesso raggiungere soluzioni errate, ma può anche accorgersi di avere sbagliato, da solo o grazie all’intervento altrui. Questa modalità di pensiero, quindi, eretta a metodologia, comporta la possibilità consapevole di commettere degli errori, in tutta onestà, nell’intento di risolvere problemi (Bruner, 1966).

Un approccio educativo di questo genere, che è del pari un approccio epistemico, ha molte conseguenze sul piano personale e relazionale sociale, producendo, verosimilmente, innumerevoli effetti. Proveremo ad indicarne qualcuno:

  • Capacità di rispondere in modo organizzato e non casuale alle difficoltà (sia sul piano soggettivo che sociale),
  • Capacità di meglio comprendere e collocare, sia sul piano personale che relazionale-sociale, il senso dell’errore, abbassando sia la critica (auto o etero-indotta), che il giudizio,
  • Capacità di superare una metodologia educativa diffusa, quanto poco evolutiva sul piano delle autonomie, di stampo comportamentista e che sanziona l’errore (sistema premi e punizioni),
  • Capacità di rompere con alcune proposte, anch’esse diffuse, che prosperano cavalcando la retorica dell’efficienza o della resilienza ad oltranza. Ci si vorrebbe sempre in gradi di resistere agli urti della vita, lasciando poco spazio al disorientamento, alla fragilità, che, pure, al pari dell’errore, hanno un posto di rilievo nella crescita personale e in quella collettiva e sociale.