La programmazione nello sci alpino: l’assunzione del limite come “principio ordinatore”

La programmazione nello sci alpino: l’assunzione del limite come “principio ordinatore”

È il mondo la causa primaria e la mia esperienza ne è la conseguenza,

o è la mia esperienza la causa primaria e il mondo la conseguenza?

– H. von Foerster

1.

È questa parte dell’anno il momento per programmare, come allenatori, sci club, atleti, il lavoro sul mentale in vista della prossima stagione agonistica.

Il percorso formativo può essere impostato sia come lavoro di alfabetizzazione degli atleti, muovendo per macroaree riguardanti gli aspetti strategici del mentale nello sci alpino (motivazione e attivazione, attenzione e concentrazione, cognizione ed emozioni, sensazione e percezione ecc.), sia come lavoro di coaching, a partire dalle caratteristiche del singolo atleta e dei suoi bisogni.

Come evidente, i due approcci non si escludono e anzi il primo, quello di alfabetizzazione, più attento alla completezza delle informazioni e deduttivo (dal generale al particolare), permette di creare i presupposti relazionali, di linguaggio, conoscitivi, per l’individualizzazione del lavoro.

Aree affini a quella strettamente mentale e che non possono essere disattese a livello organizzativo, per sci club e gruppi sportivi, sono quelle:

  • della formazione degli allenatori su abilità strategiche trasversali (ad es. come comunicare con l’atleta, quando? Come differenziare la comunicazione in base alle caratteristiche del singolo? Come gestire la comunicazione in ricognizione, piuttosto che al cancelletto e con gruppi eterogenei di giovani atleti? Come collocare e gestire l’errore e i vissuti corrispondenti? ecc.),
  • della formazione partecipata di dirigenti, tecnici e genitori su aspetti che riguardano, appunto, la relazioni tra i soggetti stessi, la definizione chiara, non casuale di ruoli e funzioni, l’esercizio di una genitorialità consapevole e funzionale al processo di crescita del giovane atleta.

Il passaggio da una programmazione a una progettazione operativa, poi, non potrà non tenere conto di aspetti che riguardano sia il singolo che il gruppo: lo sci alpino è uno sport individuale, ma che si pratica in gruppo o in squadra; quindi, la definizione di obiettivi specifici avrà una doppia centratura: una sul singolo, una sul gruppo, con conseguente differenziazione di attività, tempistiche, indicatori.

Quello di programmazione e progettazione, tuttavia, ancorché necessario, non è pensabile come un processo a razionalità assoluta, ma relativa, sia per il singolo che per il gruppo e data la non prevedibilità di una serie di fatti che possiamo però ipotizzare, nell’ottica di una “gestione del rischio”: identificazione dei fattori di rischio, analisi (in termini di probabilità e impatto), pianificazione (azioni, ruoli e responsabilità, budget), esecuzione di azioni pianificate, controllo (verifica periodica, indicatori di rischio).

È in questo senso che l’imprevisto, il limite – come vedremo d’appresso – va assunto e gestito non in modo fortuito, contingente, ma quale “principio ordinatore”.

2.

Gregory Bateson, nel suo Mente e natura, ci dice che “la mappa, non è il territorio”.

L’espressione si deve inizialmente ad Alfred Korzybski, che intendeva sottolineare la differenza tra un oggetto e la rappresentazione dell’oggetto, tra una realtà e la rappresentazione di quella realtà, perché era convinto che molte persone faticassero a distinguere le due cose.

Nello sport, nella prestazione sportiva, succede una cosa analoga e spesso gli atleti, o gli allenatori, faticano ad operare questa distinzione e credono reale, quindi incontrovertibile, la loro percezione delle cose e l’interpretazione della realtà.

Alla precedente locuzione Korzybski ne aggiungeva un’altra che spiega, credo in modo molto efficace, cosa significa farsi carico della comprensione di questo aspetto: “la parola non è la cosa”.

Il mental coach, come lo psicologo della prestazione, lavorano a questo crocevia e su un terreno sdrucciolevole: è quindi improprio e riduttivo intendere il loro lavoro come legato all’insegnamento di tecniche finalizzate all’ottimizzazione della prestazione sportiva; semmai questa è  una parte del loro lavoro, che necessita però di un background conoscitivo da parte dell’atleta (di un background epistemico), in grado di creare connessioni, relazioni, prospettive di senso.

La mappa e la parola hanno strutture simili rispetto al territorio e alla cosa rappresentata, ma non esauriscono quel che rappresentano.

L’insegnamento più difficile e importante di questa comprensione riguarda la sostanziale impossibilità di conoscere pienamente qualsiasi territorio; così come, nel nostro caso, qualsiasi struttura mentale e persona in apprendimento.

Lavoriamo al crocevia tra significato e ricerca di significato e lavoriamo in uno stato di sostanziale impotenza nel conoscere, da ultimo, i pensieri, le emozioni, le aspirazioni, le fragilità e paure dei nostri atleti come persone.

Scrive ancora  Bateson che il territorio non può mai essere colto nella sua interezza e che approssimare troppo la mappa al territorio, aumentando la definizione della mappa, è solo un modo per complicare le cose:  le mappe e le parole, piccole carte geografiche per orientarci nella nostra psiche, servono per muoversi nel reale, ma se sono troppo vaste diventano ingombranti e non economiche.

La vocazione educativa, sia come allenatori che come mental coach, consiste proprio nell’alimentare la voglia e la capacità di decifrare l’incommensurabile ordine della realtà, a partire dalla posizione di sostanziale impotenza sopra evidenziata.

3.

D’altro canto però, e data questa premessa, noi possiamo anche modificare la nostra “mappa mentale”, per riconfigurare ciò che è esterno a noi, ovvero “il territorio”, la realtà.

Da qui abbiamo un enorme potere e strumenti per aiutare la persona in apprendimento a (ri)configurare sempre e nuovamente e in modo vieppiù funzionale, la sua percezione del reale al reale stesso.

Pensiamo alla gestione della frustrazione per l’atleta e alla lettura degli errori, della sconfitta, del fallimento.

Come collocano questi vissuti, che cosa ne traggono, come li configurano nella loro mente? Ne traggono insegnamento per migliorare le loro strategie? Oppure li subiscono, peggiorando i loro adattamenti e amplificando il senso di impotenza e vulnerabilità? Li considerano prova della loro scarsa abilità? Oppure incentivo per fare meglio e di più? Manifestano stati emotivi negativi, o positivi rispetto al compito, alla prova, all’imprevisto? Come immaginano il loro futuro prossimo: fanno prognosi negative, o positive sulle loro capacità e il loro successo? Perdono la concentrazione e si distraggono con pensieri e verbalizzazioni irrilevanti rispetto al compito?

Come evidente, sono tutte domande chiave le precedenti, che hanno molto a che fare con le capacità autorappresentative dell’atleta e con il suo modo di leggere la realtà e collocare le esperienze: si parla in questo caso di “stili di attribuzione” o di locus of control.

Abbiamo quindi, secondo questa prospettiva, il potere di agire sulla nostra rappresentazione mentale e su quella dell’atleta, per modificare non tanto la realtà in quanto tale, in un certo senso indifferente a noi, ma la percezione della realtà, a fini prestativi; domandandoci:  mi è utile questa lettura dei fatti? In che modo mi aiuta, o mi disorienta, nella gestione del compito? Che cosa ne traggo dal pensare in questo modo? E simili.