Da una parte capisco che la musica non è perfezione […] e la bellezza può svanire quando si ha o si cerca solo l’eccellenza. La musica è qualcosa di vivo e comunicare attraverso di essa può risultare molto più efficace se si accantonano sciocchezze inerenti composizioni perfette, fraseggi ineccepibili ed esecuzioni impeccabili. Al contempo, non posso non ammettere di essere affetto, come posso dire…, dal virus del perfezionismo. […]
– Gidon Kremer on https://www.youtube.com/watch?v=JCfFPoLntgk&t=16s
L’idea della perfezione e del suo raggiungimento riguarda non solo la musica, ma ogni attività dell’uomo e in particolare quelle attività che potremmo definire “prestative”; ossia quelle attività dove l’eccellenza della prestazione, determina l’evidenza del risultato, il risultato pubblico.
Il “virus” o il demone della perfezione accomuna molti di noi e seppure generativa, perché spinge a non accontentarsi, ha alcuni difetti di fondo e porta con sé dei limiti che proverò a sintetizzare.
I dizionari rimandano, in genere, ad una “mancanza di errori”, “di difetti”, “di lacune” nel perseguire qualche cosa o un ideale di sé, e all’idea di “completezza”, di “eccellenza”.
È evidente che la nozione è astratta e ha senso solo se esistessero oggetti, situazioni, comportamenti, risultati “perfetti”.
Eppure questa idea funge da sprone in molti casi, ma anche, in altri, da zavorra; tanto che inibisce il portare a termine qualche cosa che abbiamo iniziato, ma a tratti inibisce anche il cominciarla.
Prodotti, comportamenti, risultati perfetti sono un artificio della nostra mente, mentre la norma è quella dell’imperfezione, del disordine, dell’anarchia delle cose che si susseguono, si modificano nostro malgrado.
Abbiamo allora strumenti previsionali, di programmazione, di “gestione del rischio” e altri che, seppure utili in alcuni contesti, rendono evidente un bisogno intrinseco di controllo: andare verso la perfezione, come indica Ricardo Peter (1995), significa uscire dalla vita o, ancora peggio, non entrarci mai.
In alcuni casi è stata tentata una storiografia della perfezione che, senza entrare nel dettaglio, ha radici sia nella cultura greca, che in quella cristiana della imitatio Dei.
Non diversamente la filosofia moderna, tranne alcune eccezioni (Ricardo Peter e la sua terapia dell’Imperfezione), continua a coltivare questo miraggio, spostando la riflessione dal teocentrismo all’antropocentrismo; ossia da un’idea di perfezione come compiutezza, o completezza ontologica, ad una conoscenza razionale, che abbia il requisito della incontrovertibilità.
C’è tutto un filone della psicologia clinica che affronta il “perfezionismo” – il concetto risale alla fine degli anni Sessanta – da varie angolazioni; intendendolo come la consuetudine a richiedere a se stessi o agli altri livelli di performance più elevati di quanto non sia necessario in quella specifica situazione (Hollander, 1978).
Si è passati quindi da un approccio unidimensionale, ad altro multidimensionale (anni Novanta), comprendente non solo gli aspetti autoriferiti, ma anche quelli interpersonali (Frost et al., 1990; Hewitt et al. 1991).
Tali deduzioni derivano da osservazioni secondo le quali i soggetti perfezionisti non solo sarebbero preoccupati di deludere se stessi in base alla qualità delle proprie performance, ma attribuirebbero elevato valore alle aspettative e ai giudizi altrui.
Certamente questa attribuzione di valore, come pure le aspettative su sé, possono essere “normali” o “esagerate”, patologiche; ferma restando la difficoltà, in specie sul piano dell’autovalutazione, di capire per il perfezionista dove sia il confine tra la normalità e il disagio.
Quando una persona perfezionista riesce a soddisfare i propri standard, possiamo avere un aumento temporaneo dell’autostima, che a sua volta agisce come rinforzo intermittente per inseguire tali standard, oppure un’immediata rivalutazione degli standard, ritenuti a questo punto troppo bassi.
È stata notata anche una differenza tra il perfezionismo dell’uomo e quello della donna; legato il primo a comportamenti dominanti, il secondo a un impegno compulsivo su più attività: quando il perfezionista è donna s’impegna allo stremo e, poniamo, lavora senza contare le ore, gestisce figli e famiglia, si tiene in forma fisicamente, s’impone per seguire i ritmi e le richieste esterne per essere una donna completa, una “superdonna” (Midler, 2002).
Le superdonne ingannano se stesse e temono, fermandosi, di affrontare i propri fantasmi, i propri bisogni e fragilità: sono spesso vittime mascherate da salvatrici (Idem). Si tratta di “un’alta autostima fragile” (Andrè C., 2008), per cui uscire da alcuni schemi, come pure dalla centratura sul compito, diventa pericoloso.
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Non entro nelle teorie psicologiche che tratteggiano lo sviluppo del perfezionismo e che ricomprendono, come intuitivo che sia, pressioni connesse a fattori ambientali (cultura, immagine, prestazione), caratteristiche del bambino (temperamento emotivo e stile d’attaccamento), richieste genitoriali.
Ci sono quindi modelli di aspettative sociali (aspettative genitoriali eccessivamente alte), modelli di apprendimento sociale (in chiave imitativa, di emulazione dei genitori con tendenze perfezionistiche: fare di più e meglio), modelli di reazione sociale (come risposta ad ambienti degradati di abuso, caotici, oppure di vergogna), modelli di innalzamento dell’ansia (il focus è l’eccessiva preoccupazione di essere inadeguati come genitori e quindi l’iperprotettività).
C’è anche una relazione tra perfezionismo e narcisismo, nel senso di una identificazione delle due modalità difensive, motivate principalmente da una percezione di difetto nella sfera del Sé grandioso esibizionistico, che si dispiega entro una percezione arcaica, infantile della realtà.
Tuttavia, mentre il narcisista esibizionista dice sono perfetto, il perfezionista ossessivo-compulsivo o fobico dice dovrei essere perfetto: in questo secondo il senso d’angoscia e impotenza è più marcato, consapevole; ha più paura di avere difficoltà, problemi ed è più cosciente del rischio di esporsi a fallimenti e frustrazione.
Le forme di disagio che accompagnano il perfezionismo come difficoltà nell’espressione di sé, vanno dai disturbi del comportamento alimentare, alla depressione, dai disturbi d’ansia, a quello ossessivo compulsivo, dalle fobie sociali ai disturbi psicosomatici.
A noi interessa da un lato la lettura di questo tratto caratteriale (la diagnosi), dall’altro il modo di aprire varchi, vie di fuga dalle idee perfette che ci rincorrono e tentano di vincolarci, compresa la capacità di sottrarci all’idea perfetta che abbiamo di noi stessi, o che cerchiamo di costruire.
Consapevoli che il compito non sarà semplice, avendo il perfezionista difficoltà sul piano della relazione, difficoltà nell’accettare i consigli, le critiche, nel riconoscere che anche gli altri hanno bisogni, desideri, sentimenti, necessità e che rispetto a questo assumono atteggiamenti di irritazione, rabbia, rifiuto. Il perfezionista e fortemente a rischio depressione, quando non gli è rimandata l’immagine di perfezione ambita.
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Come anticipato, secondo un approccio cognitivista, è utile favorire l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei propri tratti perfezionistici, tematizzando il problema e individuando gli ambiti di vita dove questo è più invasivo e disfunzionale.
In secondo luogo aiuta certamente esplorare il rapporto tra perseguimento di standard eccessivamente elevati, e opinione che si ha di noi stessi, della qualità delle nostre relazioni e dei risultati raggiunti nei vari ambiti di vita.
Infine può essere importante individuare i fattori individuali e sociali, presenti o passati, che possono avere contribuito o contribuire al rafforzamento di tendenze perfezionistiche.
Burns (1980) suggerisce di fare un’analisi costi-benefici di alcune credenze che caratterizzano la tendenza al perfezionismo e che rafforzano lo stile di pensiero dicotomico bianco/nero: o sono perfetto, o non valgo nulla, o raggiungo il tale risultato, oppure ho fallito.
Le convinzioni che tendono ad alimentare l’ipercontrollo, la ripetizione, l’ossessività, il dubbio, l’evitamento sono:
- l’autocritica mi è utile per sbagliare meno, per elevare i miei standard, per migliorare;
- se sono perseverante, metodico, posso prevenire errori e conseguenze infauste;
- se considero la cosa sotto tutti i punti di vista, farò la scelta giusta;
- di fronte al dubbio, all’incertezza, meglio rinviare le decisioni e non agire.
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In una società come l’attuale, dove l’immagine è importante, il nostro ego ipertrofico, onnipresente, dove lo status sociale e il risultato hanno un peso preponderante, è evidente che il perfezionismo trovi un terreno fertile.
Il lavoro perfetto, il partner perfetto, il corpo perfetto, la famiglia perfetta, il look perfetto ecc. sono al di là dell’esistenza umana e forse, se bene osservati, non sono neanche desiderabili perché noiosi.
Il perfezionista non è mai pronto, mai all’altezza, né mai abbastanza bravo, saggio, capace. Per evitare il senso di frustrazione e di profonda inadeguatezza che accompagna il sentirsi inadeguati di fronte a un campito, i perfezionisti s’impegnano sempre al massimo.
Per sentirsi capaci hanno bisogno di stare concentrati, di essere attenti, affidabili, di non mollare mai la frusta nei loro confronti… ed essendo così duri con se stessi, non sono teneri con gli altri! Di qui la tendenza a colpevolizzare e giudicare.
Nel momento in cui si allenta con se stessi questo regime stretto, quasi dittatoriale, il rischio può essere quello della deriva opposta, dove non c’è più nulla che valga la pena e dove si sperimenta il vuoto totale di senso.
La parte perfezionista di sé ha soprattutto paura dei sentimenti, di lasciarsi andare, di rilassarsi e sorridere (non in senso necessariamente letterale, ma metaforico). Essa condivide con la maschera perfezionista la paura folle dell’intrusione: ritenendo pericolosi i sentimenti, se ne tiene lontano e meglio annichilire i bisogni, che correre il rischio di essere frainteso, giudicato!
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Può essere difficile, in una fase avanzata del percorso di vita, perfino riconoscere quale siano i propri bisogni, e riconoscere che se ne abbiano: è quasi impossibile per il perfezionista pensare che il mondo non poggi sulle proprie spalle e che tutto, negli esiti, non dipenda da lui, dalle sue capacità e dal suo impegno.
Non ci sono scorciatoie e uno dei modi per accettare noi stessi, nelle nostre imperfezioni, è passare dal “supplizio” (per il perfezionista è tale) della relazione, dove l’altro vede chi siamo e vede i nostri limiti, le nostre difficoltà.
Le direttrici per uscire dalla gabbia del perfezionismo, quindi, sono:
- l’accettazione di quelle parti di sé ritenute – a torto o a ragione – inadeguate;
- allargare lo sguardo ad altre parti di sé, che pure ci sono e ci caratterizzano: le parti che giudichiamo inadeguate non sono tutto di noi e non dicono tutto, ossia non meritano la sovraesposizione imposta dal nostro sguardo giudice, né la dissimulazione imposta dalla nostra maschera perfezionista.
Paradossalmente, per uscire da questa gabbia, occorre valorizzare le occasioni nelle quali possiamo deludere l’altro, nelle quali possiamo sbagliare, fallire, essere rifiutati, “non scelti”.
Non è nostro compito essere “perfetti”, sempre capaci, adeguati, performanti ed esprimere sempre solidarietà, prossimità, sentimenti positivi, amore. Tra le mie reazioni umane c’è insofferenza, fastidio, rabbia, frustrazione, invidia… e il mio percorso umano, anche il mio lavoro, non stanno nel disinnescare questi sentimenti, quanto piuttosto nell’utilizzarli.
Non è mio compito essere perfetta – come scrive Caputo (2009), in qualità di operatrice sociale e psicologa -, è mio compito essere una persona prima e una professionista poi.
Enrico Clementi Attività e servizi in Coaching sport & Performing arts coach Coaching prestazionale