Siamo, come ogni anno, all’avvio di una nuova stagione agonistica e mi domando (come ogni anno) quale possa essere il punto d’avvio di un lavoro sul mentale, in accezione molto ampia, con i giovani atleti, gli sci club, i gruppi sportivi, gli ambienti della Federazione.
Lavorare con i giovani atleti significa anche, in modo inevitabile, lavorare con allenatori, dirigenti, famiglie, e in alcuni casi referenti FISI. Per cui, il mio modo di concepire il mentale, tiene insieme e integra questa molteplicità di istanze, provando ad articolare una proposta comunque organica.
Ecco allora che di volta in volta elaboro tematiche diverse ma complementari, provando a trovare un punto di convergenza comune verso il quale tendere, sia in senso educativo, che prestativo.
Sono infatti questi due aspetti, insieme a quello partecipativo, a doversi integrare e spesso a confliggere; proprio perché difficile, sul piano della logistica e delle risorse, ma anche culturale, inserire in programmi organici le finalità anzidette: Prestazione, Partecipazione, crescita Persone (secondo il modello delle 3 P di Côté).
Di più e a monte, ancora prima di parlare di programmi, una difficoltà è data dalla capacità di ricezione del settore stesso; dove è complicato andare oltre un interesse e un impegno generici a voler fare “qualche cosa di nuovo” e “di diverso” per la crescita dei ragazzi, dei professionisti e del settore tutto.
Infatti, in specie noi adulti ci accostiamo a nuovi apprendimenti carichi di prospettive di significato, credenze, ideologie, stili d’apprendimento acquisiti, che creano dei veri e propri filtri o “modelli di aspettativa”.
Allenatori del mondo giovanile, ma anche delle categorie “maggiori”, si mettono sovente in dialogo avendo già certezze e convinzioni proprie, che, per quanto valide possano essere, limitano l’ascolto e risultano essere scarsamente generative.
Quando proposte o informazioni diverse non si accordano con le aspettative personali è come se si aprissero due strade: possiamo accontentarci di afferrare ciò che conferma i nostri schemi precedenti (è questo quello che accade in termini di “apprendimento strumentale”), oppure, a un livello piò oneroso e complesso, possiamo sottoporre a valutazione critica gli stessi assunti del processo, modificandoli in corso d’opera e generando un “apprendimento trasformativo”.
Ho capito nel tempo che non posso dare per assodato che l’altro ascolti, che l’altro capisca, che l’altro valorizzi un contenuto, per quanto evolutivo possa essere, ma che l’ascolto, la comprensione, la valorizzazione di tale contenuto da parte di terzi è esso stesso un obiettivo: qualche cosa da porre e per il quale lavorare!
Ecco allora che è giustificato parlare di “patto educativo” o di “alleanza educativa” prima ancora di fare educazione, di “patto” o “alleanza formativa” prima ancora di fare formazione, di “contratto” o di “accordo con l’atleta” in accezione ampia (preparazione atletica, mentale, definizione di finalità e obiettivi, sistema valoriale di riferimento ecc.), prima ancora di avviare un programma di allenamento.
Termini come “patto”, “alleanza”, “accordo”, “contratto” e simili, come evidente, pongono l’accento su aspetti diversi della relazione e rinviano a pratiche, modelli, più o meno formalizzati.
Certamente l’obiettivo di costruire una “alleanza”, sia in ambiente educativo che formativo, con giovani o adulti, è un obiettivo principe, che sappiamo essere caratterizzato: da una condivisione esplicita di obiettivi e metodo, dalla definizione chiara di ruoli e compiti e dalla relazione: fiducia, empatia, reciprocità, comunicazione, rispetto.
Siamo arrivati, per via di ragionamento, alla risposta che cercavamo: quale sia o possa essere il “punto di partenza” di un lavoro sul mentale con le categorie giovanili; ma anche quale sia o possa essere il “punto di partenza” di un discorso sul mentale – dicevamo in accezione ampia – con tecnici, dirigenti, famiglie, mondo FISI.
Il “mentale” come da me inteso e a partire dal modello teorico di riferimento (Côté) non è riducibile all’aspetto prestativo, ma ricomprende abilità trasversali e altre strategiche che incentivano la partecipazione attiva (quindi le autonomie), come pure la crescita personale.
È inadeguato, fuorviante che il tale atleta o il talaltro venga indirizzato dall’allenatore o dalla famiglia, a fronte di una qualche difficoltà manifesta sul piano prestativo, allo psicologo dello sport o a quello della prestazione umana. Comunque si intendano questi approcci, o metodi, o modelli, lo psicologo è un professionista che afferisce al settore sanitario; e lo sport, nel nostro caso – credo in modo incontrovertibile – è più prossimo all’ambito socio-educativo, che a quello socio-sanitario.
Adeguato, viceversa, è concepire l’allenamento mentale in termini di “alfabetizzazione”, a partire dalle categorie “minori” e trasferendo conoscenze, competenze, abilità che, seppure trasversali, sono sempre e comunque orientate al risultato, alla performance, intesa come espressione di sé.
Diciamo infatti che il nostro compito, come allenatori o coach, è quello di facilitare l’allineamento della prestazione reale con quella potenziale.
Prestazione, quest’ultima, che non è ipotetica (a volte si pensa che la prestazione potenziale di un giovane sia quella che potrà avere da professionista e perché giovane promessa), ma attuale: si lavora sul qui ed ora della situazione concreta e con quel “poco” o quel “tanto” che il giovane esprime in quel particolare momento della sua vita! E dato un determinato stato di forma (generale e odierno), determinate condizioni ambientali, un certo bagaglio d’esperienza e di abilità tecnica, materiali più o meno performanti e profilati per le caratteristiche dell’atleta stesso e/o per il circuito nel quale compete.
Prima ancora di parlare di programmi, proposte, calendari, uscite, argomenti e acquisizioni specifiche, è bene domandarsi, quindi, se vi siano i presupposti cognitivi ed emotivi, relazionali, fiduciali, di disponibilità ad apprendere, che permettono nuove acquisizioni.
E questo vale per il giovane atleta, per l’atleta evoluto, ma anche, in sede formativa, per i tecnici e i quadri dirigenziali: non si dà innovazione, sviluppo delle professioni, crescita culturale, se non a patto che il singolo, il gruppo e l’organizzazione stessa non sospendano, almeno provvisoriamente, convinzioni, atteggiamenti, modalità relazionali e schemi di apprendimento.
Passando così da un apprendimento che abbiamo detto essere “strumentale” e in qualche modo fine a se stesso, limitato negli effetti e nel tempo, forse pretestuoso, ad altro “trasformativo” e capace di generare nuove visioni, nuova conoscenza e pratiche innovative.