di Enrico Clementi
La vita è un processo che cerca conoscenza. “Vivere è imparare.”
– K. Lorenz
Il “fare educazione” è una prassi, un modo di essere e di relazionarsi agli altri, alle cose e al mondo, che necessita, per il suo buon fine – ossia produrre conoscenza e apprendimento – di una serie di atteggiamenti, di comportamenti, che proveremo a indicare.
Con atteggiamenti intendo la disposizione di una persona a produrre risposte emotive o comportamentali solo in parte determinate dall’ambiente (contesti familiare, sociale, lavorativo, ecc.) riguardo a situazioni, persone, oggetti.
Gli atteggiamenti servono ad: adattarsi, esprimersi, conoscere, difendersi (funzione ego-difensiva), e si strutturano mediante un contatto diretto con l’oggetto: per mera esposizione (Zajonc, 1968); secondo comportamenti appresi; attraverso l’osservazione del proprio comportamento (Bem, 1972) e – dove possibile al soggetto: è essa stessa una competenza – la sua modulazione.
L’atteggiamento e la risposta ambientale da esso generata, è un costrutto costituito dall’associazione in memoria tra la rappresentazione dell’oggetto e la sua valutazione.
I verbi o predicati mediante i quali l’educazione genera cambiamento, ossia mediante i quali assistiamo, nell’individuo, nei gruppi, nella società, all’emergere di atteggiamenti, capacità, condotte, idee, prima non possedute o differenti da quelle attese, sono: comunicare, esplorare, progettare, negoziare, accogliere, verificare, immaginare, fare, esporsi al nuovo e simili.
Ognuno di questi verbi è portatore di un significato dinamico, mentre se proviamo ad elencare i loro opposti riscontriamo, da subito, elementi di staticità, di non-cambiamento: tacere, aspettare, accettare, opporsi, giudicare, dimenticare, ripetere, guardare, difendere comportamenti/atteggiamenti/risposte consueti e noti.
Perché un progetto educativo abbia senso e funzioni, a prescindere dai contesti più o meno formalizzati (scuola, altre organizzazioni o aggregazioni sociali, gruppi di lavoro, famiglie ecc.), dobbiamo attribuirgli: un luogo d’azione, una durata, un motivo per il quale esso è compiuto, i mezzi o le risorse delle quali ci si serve, un fine verso il quale tendere e i sentimenti, le emozioni che ogni vicenda educativa elicita.
Premessa: il lavoro per le autonomie
Su un punto dovremmo essere d’accordo, ossia che l’educazione, la formazione, il “sostegno” – in qualsiasi modo venga inteso – sono orientati alle autonomie; ossia a trasferire la facoltà e capacità del singolo di autorappresentarsi, di autodeterminarsi, di regolarsi liberamente in termini di relazioni, scelte, comportamenti.
Nello stesso tempo però, questa autonomia o indipendenza, è da intendersi non in senso soggettivistico o nei modi di un individualismo esasperato (solipsismo), ma tenendo conto delle necessarie interazioni sociali e di un sistema di regole e assetti che caratterizza la società stessa: tutti dipendiamo da tutti, e non c’è autonomia senza dipendenza.
È in questo senso che vanno intese le parole del pedagogista Paulo Freire quando dice che Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo.
Le funzioni del contesto
È evidente che il sistema di regole e relazioni che informano le nostre autonomie, è un sistema culturalmente determinato: le nostre autonomie sono mediate, orientate e in un certo senso limitate, da una serie di fattori che riguardano condizioni materiali, sociali, normative, politiche ecc., che a loro volta risentono del momento storico, delle condizioni di vita e ambientali, del gruppo etnico d’appartenenza ecc.
Qui interessa sottolineare il ruolo centrale dell’ambiente fisico e sociale come fattore essenziale per ripensare l’azione educativa e formativa, a qualsiasi livello: l’ambiente, il contesto, sono appunto considerati come “terzo educatore” e giocano un ruolo decisivo nel determinare la qualità degli apprendimenti.
Donde la rilevanza, nel processo educativo e di formazione, di rafforzare le abilità non solo o non tanto cognitive, emotive, ma meta-cognitive; ossia quell’insieme di processi mentali sovraordinati che ci permettono di riflettere, organizzare e modulare le attività cognitive, di pensiero e di risposta all’ambiente.
Questo significa esplicitare l’intenzionalità, il fine dell’agire educativo, rendendo evidente e leggibile che qualsiasi cosa diciamo, facciamo o pensiamo ha a che fare con una qualche idea di “educazione”, modulata culturalmente.
Come dice un caro amico e maestro, recentemente scomparso, Boris Porena: Ogni nostro atto o pensiero, se non altro in quanto possibile oggetto di comunicazione, ha in sé una componente culturale che va relativizzata alla cultura che l’ha prodotta. (Definizione 1 di IMC)
Intelligenza vs. Intelligenze: sviluppare Intelligenza strategica e di contesto
È noto e diffuso che è conveniente, sul piano degli apprendimenti e della individualizzazione degli apprendimenti, parlare – con Howard Gardner – di “intelligenze multiple”; ossia di ragionare in termini di differenziazione dell’intelligenza umana in intelligenze specifiche, piuttosto che definire l’intelligenza come un’unica capacità generale.
Lavorare alle abilità meta-cognitive e rendere esplicite le finalità, ma anche i modi dell’agire educativo (metodo), significa appunto rafforzare nella persona in apprendimento strumenti di analisi del contesto, capacità decisionali e di scelta, di lettura dei processi cognitivi ed emotivi, capacità di valutazione, autovalutazione ecc..
Significa lavorare per le autonomie del singolo e trasferire abilità, strumenti che impattano in modo positivo, evolutivo, dinamico vari tipi d’intelligenza, tra le quali certamente quelle interpersonale, intrapersonale, linguistica, ma soprattutto strategica.
Intendo con Intelligenza strategica la capacità necessaria per risolvere creativamente problemi, anziché tentare di risolverli facendo ricorso a modalità attinte nel quadro di concezioni e conoscenze formalmente apprese.
Non c’è nulla di male nella conoscenza formale, e anzi essa è funzionale in termini di immediatezza e di economie cognitive, ma male si adatta a contesti complessi e a dinamiche situazionali.
L’Intelligenza strategica, pertanto, corrisponde a sviluppare una modalità di risposta alla complessità del cambiamento, che non viene limitata da una razionalità orientata al compito, o meramente “competitiva”, ma implica la capacità strategica e trans-disciplinare di stabilire nuovi nessi o rapporti tra elementi diversi, come pure nel superare contraddizioni apparenti, conflitti o relazioni problematiche tra di essi.
L’orientamento al cambiamento
L’educazione, come indica Demetrio, non è un costrutto teorico ed è sostanziata da gesti, parole, modalità di relazione e ascolto: l’educazione è cioè un modo di designare processi complessi che non possono essere scomposti in elementi costituenti, se non a fini didattici.
Per questo non credo nei metodi, nelle teorie, nei modelli, se non nella misura in cui questi stessi metodi e modelli sono disarticolati a fini pratici, e nel superiore interessa della persona nella sua singolarità d’esperienza e di vita.
Rafforzare delle competenze, trasferire abilità cognitive o metacognitive, significa da ultimo comunicare utilizzando canali molteplici, al fine di intendersi rispetto ad un insieme di accadimenti che si verificano nella storia di un individuo o di un gruppo, il cui scopo è un cambiamento modale: non si farebbe educazione, né ci si accingerebbe ad apprendere, se non vi fosse una qualche idea di “trasformazione” e “cambiamento”.
La “metabletica”
Sempre Demetrio ci dice che il mutamento di individui e società è in qualche modo una sostanza materialmente visibile, emotivamente percepibile e quantitativamente misurabile.
Il cambiamento, da noi assunto ad esempio, a modello fondamentale dell’azione educativa, diventa l’unità fenomenica percepibile, narrabile, osservabile nell’immediato, verificabile: cioè ci si aspetta che quella persona o quel gruppo, proprio perché “educato”, ci segnali una modificazione a livello comportamentale, cognitivo, motorio ecc., in ordine a competenze e capacità, condotte, idee, prima non possedute o differenti da quelle attese.
Da qui si evince che la nozione di cambiamento appartiene strutturalmente all’educazione: tale criterio di identificazione, Demetrio lo definisce categoria di intrinsecità; ossia, il cambiamento è essenziale all’atto educativo (ne costituisce l’essenza), e non si dà educazione, senza cambiamento.
L’educazione è “arte del variare”, del “trasformare” o metabletica (Van Den Berg), ossia scienza del cambiamento per tutto ciò che attiene le modificazioni sostanziali di individui, gruppi, contesti, società, culture.
Come strutturare il cambiamento
È, la vita, un’esperienza intrinsecamente educativa?
Se lo è, allora tutto concorre ad educare: l’intenzionale e il casuale, il progetto e l’occasione, il conscio e l’inconscio: la vita è formazione, e la formazione si risolve nell’esistenza senza soluzione di continuità.
Konrad Lorenz, in una nota conversazione con Franz Kreuzer, dice che Vivere è imparare; laddove con “imparare” intende la capacità innata di apprendere e di acquisire, nel vivente, sempre nuova conoscenza.
Ma qual è la struttura del cambiamento, la sintassi, potremmo quasi dire, dell’educazione?
Questa sintassi è una sorta di codice interpretativo che ci permette di comporre e scomporre i vari modi d’esperienza (variandone l’ordine, dove necessario) in funzione dell’apprendimento/cambiamento. Questa struttura conosce:
- un ordine temporale (ci sono tempi opportuni di apprendimento/cambiamento, e altri meno o affatto propizi);
- elementi di novità/variazione (l’apprendimento del nuovo, nelle sue forme distali o prossimali da quanto già acquisito);
- un ordine spaziale (c’è un dove, un contesto – lo abbiamo visto sopra – che è alleato o meno del fare educazione);
- una direzionalità, una finalizzazione del cambiamento (perché cambiare? per quali finalità e obiettivi?);
- una propensione al cambiamento ed elementi di reversibilità (si cambia lasciando alle spalle qualcosa o qualcuno, o abbattendo difese, o modificando risposte emotive, comportamentali ecc.);
- una comprensione, accettazione, ricollocazione degli errori, delle esperienze negative e delle ipotesi di fallimento che accompagnano il cambiamento.
Una conclusione: cambiamento e resistenza al cambiamento
Il fare educazione si trasforma in programma, in azione intenzionale, in pedagogia, quando struttura attorno alla persona e al suo desiderio/bisogno di cambiamento i modi d’esperienza elencati e – di più – li disarticola in veri e propri “laboratori d’esperienza”.
Un luogo d’apprendimento non è uno spazio meramente fisico, ma cognitivo, emozionale, relazionale; e un soggetto aperto al cambiamento, è una persona che sa misurarsi con una serie di resistenze, di frizioni interne ed esterne e approntare – perché conveniente sul piano evolutivo – un cambiamento.
Al contrario, la resistenza al cambiamento e il non-cambiamento generano pregiudizi, approssimazione, conformismo, sospetto, forme di ostruzionismo e sostanzialmente paura, in termini di controllo, a ciò che sembra destabilizzare certezze tanto inamovibile, quanto fragili e illusorie.