[…] il concetto di disagio, dunque, trascende relativamente le condizioni di vita oggettivamente definibili e pone l’attenzione sul modo con cui l’individuo vive e percepisce le sue relazioni all’interno di un contesto dato, pensato e rappresentato. (Bruscaglioni et al. 1996)
Al di là della medicalizzazione
Recentemente con un amico psicologo, un po’ per gioco un po’ per davvero, abbiamo coniato il termine “depressione ontologica”; per dire di un certo stato emotivo che non ha rapporto con qualche problema o trauma evidenti, ma con il senso della vita, con il significato e il valore delle scelte soggettive.
Ci è sembrato di riconoscere, sulla nostra pelle, che il vero nodo di ogni sofferenza, di ogni forma di disagio più o meno seria – al di là delle possibili, varie attribuzioni – fosse riconducibile, da ultimo, a una deficienza esistenziale.
Thomas Szasz (2007), psichiatra vicino alle posizioni dell’antipsichiatria, illustra in modo molto chiaro il processo sociologico che chiamiamo “medicalizzazione”, scrivendo:
Prima, le persone si sentivano depresse o erano depresse. Adesso hanno la depressione. Prima, alcune persone depresse finivano per uccidersi, ma la maggior parte di loro non lo faceva. Adesso le persone non si uccidono, è la depressione a ucciderle, e (virtualmente) chiunque si uccida lo ha fatto perché depresso.
La “medicalizzazione” è quel fenomeno sociale che impone la griglia concettuale del sapere medico e psicologico come lente privilegiata di lettura di tutti i fenomeni che concernono l’uomo.
Aggiunge, in altre parole, un passaggio nell’interpretazione delle difficoltà sociali e individuali: tra soggetto e mondo si inserisce la spiegazione medica della difficoltà.
Per ottenere diritto di cittadinanza nel discorso sociale e istituzionale la sofferenza mentale è passata attraverso il vaglio del sapere medico, da quella distinzione tra “normale” e “patologico” che sappiamo, con Foucault, informare surrettiziamente tutto il sapere occidentale.
In questo modo le diverse sofferenze vengono misurate e vagliate attraverso le griglie categoriali della biomedicina e dei diversi approcci psicologici.
La depressione esistenziale
Quella che noi abbiamo chiamato “depressione ontologia” è, nei fatti, quella che Heinz Häfner chiama “depressione esistenziale”; per indicare – come detto – quel particolare sentimento o stato che non ha rapporto con cause riconoscibili, ma con il senso lato della vita e con la difficoltà ad attribuire o cogliere questo senso.
Alcuni vissuti, sentimenti, considerazioni e analisi razionali della/sulla propria realtà esistenziale, inducono e alimentano modalità di vita affatto simili alla depressione nevrotica o psicogena in senso stretto.
Sia la filosofia esistenziale che il metodo fenomenologico si sono occupati di questa esperienza, in particolare con Husserl e Heidegger. In questa accezione anche il disturbo clinico è un modo di “essere nel mondo” in quanto il cliente è un soggetto che sta fornendo una sua risposta al fondamento stesso dell’esistenza.
Il contributo di E. Borgna
Secondo Eugenio Borgna (1999) possiamo distinguere una depressione esistenziale, una depressione motivata e una depressione psicotica, che a volte si confondono, mescolando cause biologiche, psicologiche e sociali.
Per questo la depressione esistenziale viene spesso accostata alla malinconia, a quell’emozione cioè, caratterizzata da un costante scoramento e senso d’impotenza, che va dalla semplice e costante sensazione malinconica, a una forma anche invalidante di depressione.
La malinconia è infatti una sorta di tristezza di fondo a volte inconsapevole che prima ancora che una dimensione radicale di ogni depressione è uno stato d’animo, una Stimmung, che come l’angoscia (clinicamente del resto, angoscia e melanconia, ansia e depressione sono spesso l’una associata all’altra) riempie di sé ogni esistenza.
È necessario tuttavia distinguere la depressione esistenziale, da quella motivata e da quella psicotica.
Il depresso psicotico vive il tempo come uno stato di transitorietà volgendosi verso un passato o un futuro, fuori dal tempo, che è reputato impossibile da stabilire nel presente: in questo senso l’approccio terapeutico si pone nell’ottica di cercare di aprire, partendo dai modi di essere e fare esperienza del paziente, nuovi orizzonti di senso che lo “rilancino” verso il suo futuro.
Al contrario, se l’assunto di base circa la natura umana ci porta a paragonare l’uomo ad una macchina è indubbio che la psicopatologia sarà considerata come un errore di funzionamento della mia macchina-cervello e dunque la psicoterapia sarà un intervento tecnico di riparazione del guasto.
Il sostegno alla persona deve configurarsi come azione che ha come oggetto [non] il cervello ma […] un soggetto, una persona, analizzata e descritta nelle sue emozioni, nei suoi pensieri, nelle sue fantasie, nelle sue immaginazioni: nei suoi modi di essere che non si identificano nel comportamento ma nei significati che si esprimono in ogni singolo comportamento.
Per una politica del dolore
L’uso massivo e sempre più diffuso del linguaggio medicalizzato all’interno della vita quotidiana può quindi esser letto come una prova sufficiente che il dolore, lungi dall’esser meno presente, è massivamente tradotto entro le spiegazioni riduzionistiche del sapere medico, che forniscono nuove modalità socialmente adeguate di riferirsi alla propria sofferenza.
Il dolore, tuttavia, prima che patologia, è un sapere, una finestra aperta sulle diverse manifestazioni della condizione umana.
Se le pratiche discorsive vengono pervase da diagnosi – ansia, depressione, funzionamenti neurologici ecc. – si impedisce a questo sapere di dispiegarsi e trovare forme di legittimazione altre che non quelle mediche.
Uscire dall’ingenuità algofobica propria del pensiero medicalizzato significa in prima istanza riconoscere al dolore il proprio statuto epistemico, statuto che ha la potenza narrativa di mettere in crisi lo status quo.
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La fotografia in evidenza è di Francesco Galli https://francescogallistudio.com/
VINDENES BRO – The Bridge of Winds in Ghent, Belgium, 2018
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