Categorie giovanili nello sci alpino: una disamina su obiettivi, programmi, criteri previsionali e strumenti di lettura

Categorie giovanili nello sci alpino: una disamina su obiettivi, programmi, criteri previsionali e strumenti di lettura

La programmazione degli sci club e dei comitati regionali, ma anche dei progetti FISI dedicati alle categorie giovanili, è subordinata, a seconda delle categorie, a criteri di lavoro e finalità ad oggi non bene definite, e che d’appresso proveremo a chiarificare.

Infatti, il punto nodale di questa disamina, è che sembra difficile adeguare i criteri che regolano la partecipazione alle gare e la qualificazione ad alcune competizioni, con le premesse di tipo teorico adottate dalla Federazione.

Se da un lato abbiamo come criterio di riferimento il risultato pubblico, la rilevazione cronometrica, dall’altro abbiamo un modello di crescita e di sviluppo dell’atleta “a lungo termine”, dove l’allenarsi a competere e l’allenarsi a vincere sono demandati, rispettivamente, ai 16-20 anni e ai 20+ anni.

Il modello di Sviluppo dell’Atleta a Lungo Termine (SALT, FISI-STF), derivato da alcuni studi ed esperienze di altri paesi, Canada in particolare, può riscontrare o meno le nostre simpatie, ma è giustificato dal fatto che la prestazione di picco, nello sci alpino, è raggiunta, a differenza di altri sport (si pensi ad es. alla ginnastica artistica), in età matura e comunque dopo la pubertà.

È questa una prima evidenza che giustifica, almeno dal mio punto di vista, una programmazione e una definizione degli obiettivi, nelle categorie giovanili in genere e nei Children in particolare, non strettamente legata alla prestazione, ma orientata alla partecipazione e alla crescita personale.

Ho presentato nel mio ultimo articolo il modello di riferimento che ci permette di ragionare in questi termini, ideato da Jean Côté e denominato “Developmental Model of Sport Partecipation” o DMSP. V. articolo al link https://enricoclementi.it/programmazione-e-attivita-negli-sci-club-un-cambiamento-di-paradigma-dalla-pratica-deliberata-al-gioco-deliberato/

Gli obiettivi di Partecipazione, crescita Personale e Prestazione (le 3 P di Côté), sono obiettivi che ogni organizzazione sportiva e ogni sci club perseguono; semmai il discrimine è tra quanti assumo questa triade in modo consapevole e la traducono in azione, e chi al contrario persegue queste stesse finalità in modo empirico.

Alcuni ricercatori evidenziano che la natura conflittuale di alcuni obiettivi non li rende perseguibili all’interno di un unico programmae che questi obiettivi dovrebbero essere posti all’interno di programmi diversi.

È questo un aspetto da considerare, in sede di programmazione, valutando, evidentemente, le risorse umane ed economiche a disposizione. Rimando all’articolo di cui al link per una chiarificazione di cosa si intenda con Prestazione, Partecipazione e sviluppo Personale.

[…]

Sono stato frainteso da alcuni tecnici in passato e ritenuto detrattore dei programmi della FISI rivolti alle categorie giovanili.

In realtà non è così e seguo con estremo interesse le varie proposte e i tentativi della Federazione di assolvere al difficile compito di promozione e tutela del talento giovanili; anche se, come detto in apertura, sono evidenti delle contraddizioni interne, di sistema, tra circuito gare e sviluppo dell’atleta.

Rispetto al modello di sviluppo “a lungo termine” – che pure suggerisce delle linee importanti per la definizione di finalità e obiettivi che svincolano il giovane, le famiglie, l’allenatore stesso da aspettative sovente non adeguate – mancano ricerche che ne attestino la validità.

Anche se appropriate, per le categorie in oggetto, finalità quali l’Imparare ad allenarsi (9-12 anni), l’Allenarsi all’allenamento (12-16 anni), l’Allenarsi a competere (16-20 anni) ecc., sorprende che il modello di sviluppo dell’atleta “a lungo termine” (Long-Term Athlete Development, LTAD; Balyi e Hamilton 2004), rispetto al modello sopra citato di Côté, non appare nelle review globali; questo nonostante la sua diffusa implementazione in molte nazioni e la sua adozione da parte di varie federazioni.

Per cui, la mancanza di ricerche sul LTAD rinforza il suo status di prodotto più commerciale che scientifico, proprio perché non supportato da alcuna significativa evidenza.

Dirimente per il nostro ragionamento è anche che molti elementi della teoria della “pratica deliberata” – sulla quale si investono come famiglie, sci club, comitati, programmi giovanili predisposti dalla FISI, ingenti risorse –  non sono ad oggi confermati, sul piano scientifico.

I programmi basati sulla “pratica deliberata” suggeriscono che per raggiungere il livello più alto di prestazione, ci si debba impegnare per 10.000 ore o 10 anni di sistematica attività nel proprio specifico sport (specializzazione precoce).

Pochi studi, tuttavia, hanno mostrato che 10.000 ore di “pratica deliberata” siano realmente un prerequisito per l’eccellenza nella prestazione sportiva; al contrario, vari studi mostrano che la prestazione esperta negli sport, in cui generalmente la prestazione avviene dopo l’età di 20 anni, è stata raggiunta dopo 3000-4000 ore di allenamento specifico (Côté, Abernethy 2012).

[…]

Oltre all’investimento di risorse in attività presidiate da adulti esperti (“pratica deliberata”) e alle difficoltà connesse alla gestione di una macchina organizzativa senza eguali nel mondo dello sport, per le caratteristiche intrinseche della disciplina (si pensi solo alle trasferte estive di squadre e sci club), un’altra criticità è quella della individuazione del talento.

Le letteratura sulla selezione e l’identificazione del talento nello sport, mostrano che la possibilità di individuare atleti di talento nel lungo termine sia molto scarsa, specialmente quando la selezione del talento viene effettuata durante i periodi di crescita prepuberale o puberale (ad es. Vaeyens et al. 2009).

Per fornire dei numeri, uno studio che analizza in maniera particolare la difficoltà dell’identificazione e previsione del talento, è stato condotto con giocatori di hockey su ghiaccio in Canada. Parcels (2002) ha studiato le possibilità di raggiungere lo status di atleta di élite nell’hockey su ghiaccio, cioè di giocare nella National Hockey League.

Si è notato come il passaggio dall’hockey su ghiaccio giovanile alla lega professionistica sia estremamente raro: su un totale di 33.000 maschi nati nel 1975 che erano iscritti all’Ontario Minor Hockey Association, appena 6 soggetti (il 0,01%) sono riusciti a giocare nella NHL per almeno 5 stagioni.

Con delle probabilità di successo così basse, è comprensibile che la previsione dello stato di élite nello sport giovanile sia poco affidabile e quindi, di conseguenza, non sia bene allocate risorse in questa direzione, in specie sui grandi numeri (si pensi qui al “gruppone” del settore giovanile azzurro appena composto).

In sintesi, e sulla base di alcune evidenze scientifiche derivate dal mondo dello sport, la programmazione nelle categorie giovanili dovrebbe riconsiderare alcuni aspetti e nello specifico:

  • le logiche di individuazione, sviluppo e tutela dell’élite;
  • le logiche di sviluppo dell’attività sportiva in senso lato (promozione, aggregazione, prevenzione, inclusione, salute);
  • la capacità di conciliare obiettivi educativi con obiettivi di prestazione, in ogni fase e contesto di sviluppo, elitario o meno che sia.

Infatti, non è ancora bene chiaro che lavorare su Partecipazione e crescita Personale, con i giovani, significa comunque lavorare sulla Prestazione, per via indiretta e ottimizzando i tempi, abbiamo detto ampi, necessari alla maturazione dell’atleta e al raggiungimento della Peak Performance.

Troppo spesso sento ancora considerare l’allenamento mentale come insieme di tecniche finalizzate all’ottimizzazione della performance, oppure come attività discrezionale, intrapresa dall’atleta o consigliata dal tecnico, a fronte di difficoltà prestative non diversamente gestibili.

Al contrario, tutto quanto fin qui detto è “allenamento mentale”, nel senso di un reale, concreto trasferimento di conoscenze, capacità critiche, strategiche, agli attori o “parti interessate” (Stakeholders) di un sistema complesso; composto da atleti e giovani atleti, famiglie, allenatori e altre figure tecniche, dirigenti ecc. Sistema che deve o dovrebbe trovare un punto di convergenza, nella legittima differenza di interessi e punti d’osservazione.

[…]

Una chiosa conclusiva sull’allenamento mentale, inteso nella mia proposta non come modello o sistema prestativo – i modelli sono delle riduzioni, seppure necessarie, del fenomeno più complesso della prestazione umana – ma come processo finalizzato alla partecipazione e alla crescita personale: è più conveniente, sul piano prestativo, accompagnare la crescita personale, ossia trasmettere conoscenze, competenze e “fare cultura” (educare), che avvalersi di tecniche o modelli derivati dalla psicologia della prestazione.

Pur riconosciuta come fondamentale, la componente mentale, sia nello sport di vertice che nelle categorie giovanili, è intesa sovente come abilità innata, che l’atleta o il giovane atleta posseggono in misura più o meno evidente.

Inoltre, l’allenamento mentale, è lasciato alla discrezionalità dell’atleta stesso o della famiglie, oppure è evocato là dove sorgano dei problemi prestativi non risolvibili altrimenti (in gara, piuttosto che in allenamento) e che esulano dalle chiavi di lettura dell’allenatore.

Allora si ricorre allo psicologo dello sport, o allo psicologo della prestazione umana e si cerca di trasformare uno stato problema in risorsa, con esiti più o meno buoni, ma comunque circoscritti all’ambito della disciplina.

Ho già analizzato ampiamente questa situazione in particolare in un articolo titolato Il mental coaching in ambiente FISI: questioni aperte e prospettive https://enricoclementi.it/il-mental-coaching-in-ambiente-fisi-questioni-aperte-e-prospettive/ e indicato, in controtendenza con lo stato attuale delle cose, l’opportunità di un cambiamento di paradigma: senza misconoscere l’aspetto ludico, aggregativo dell’avviamento allo sport e quello esperienziale alla pratica agonistica (apprendere le abilità fondamentali dello sci), la mia convinzione è che un lavoro sulla componente mentale vada invece impostato in modo diffuso fin dall’inizio, per poi essere specializzata (ovvero individualizzata) nel passaggio all’attività professionistica.

Quando parlo di alfabetizzazione mentale nelle categorie giovanili, dico che già la conoscenza analitica di alcuni termini, di alcuni aspetti che caratterizzano il mentale, induce dei cambiamenti strutturali nella personalità e nelle caratteristiche del giovane atleta; cambiamenti che, in qualche modo, creano i presupposti psico-fisici e caratteriali del futuro professionista e creano le basi per “allenarsi a competere” e “allenarsi a vincere”.

Pensare che soltanto l’atleta che mostra determinate difficoltà ad esprimersi sul piani prestativo, sia esso professionista o meno, possa trarre giovamento da un lavoro di tipo introspettivo, piuttosto che da un lavoro di analisi e di verbalizzazione con una figura terza rispetto a quella dell’allenatore, è come dire, per eccesso, che soltanto un atleta poco strutturato fisicamente possa trarre beneficio dalla preparazione atletica! Cosa che nessun allenatore o dirigente, immagino, si sognerebbe di dire.

Chiudo il mio ragionamento ricordando al lettore che, come indicato in altri interventi, il lavoro dell’allenatore, come quello del mental coach (pur se per vie diverse), ha il fine precipuo di allineare la prestazione reale con quella potenziale; ma nello stesso tempo ha il fine, in specie nello sport di base e nelle categorie giovanili, di formare la persona-atleta non solo all’attività professionistica, ma in generale alla complessità delle relazioni sociali e alla vita.

Infatti, non tutti i ragazzi che approdano all’agonismo vi approdano con gli stessi obiettivi e molti di loro (come accade in altri ambienti) arrivano negli sci club da vicende personali e familiare complesse: in questi casi, come evidente, l’obiettivo agonistico è secondario rispetto ad altri obiettivi di crescita.

Non va dimenticato che le organizzazioni federali, gli sci club, sono nella maggior parte dei casi Associazioni, ovvero enti di Terzo Settore, cioè organismi “a vocazione sociale”. Come tali, quindi, e in virtù di una serie di agevolazioni anche fiscali, chiamati a svolgere, a fianco delle altre agenzie educative (scuola, famiglia,  altri gruppi organizzati), una determinata funzione sociale, che esubera il solo ambito dello sport.

In questo senso e sostenuto da una serie di argomentazioni credo largamente condivisibili, mi sembra ci sia molto da fare in FISI e credo vadano riconsiderati, in virtù delle ultime cose dette e del ruolo delle realtà associative sportive, mission e vision di questo mondo; ovvero valori, obiettivi, allocazione delle risorse, professionalità coinvolte e metodi.