Qualunque sia la posizione conoscitiva (episteme), le scienze oggi chiariscono che il cervello è un organo molto complesso, costituito da un enorme numero di cellule. Oggi sappiamo che la sola corteccia cerebrale è composta da cento miliardi di cellule nervose. Si tratta di cellule che hanno alcune particolarità e fatte per comunicare attraverso sinapsi. Ogni neurone si stima che sia in contatto con circa diecimila altri neuroni, per un milione di miliardi di connessioni.
Ma come si determinano tutti questi connessioni? E quale per noi l’interesse, sul piano pedagogico?
Sappiamo che:
- una parte di tali connessioni dipende dal patrimonio genetico dell’individuo;
- la parte restante è imputabile alle esperienze di vita, compreso l’apprendimento;
- una minima parte di tali connessioni, comunque non trascurabile, è del tutto casuale e non necessariamente cosciente.
Tramite lo stabilirsi di questi contatti e il rinsaldarsi degli stessi si impara a parlare una lingua, a riconoscere i volti, a praticare uno sport, ad apprendere nuove nozioni che permettono di affrontare la vita con relativa efficacia, ecc.
Dato il gran numero di neuroni, dunque, e data l’eterogeneità della modalità con cui si determina il corredo neurale, risulta chiaro il motivo per cui non esistono due cervelli uguali, e quindi modalità di recepire, d’apprendere, identiche tra di loro.
Piuttosto, la combinazione di corredo genetico, esperienze di vita, e di una non trascurabile componente casuale, fanno del cervello di ognuno qualche cosa di irripetibile. Da questa complessità, che risiede alla base dell’incredibile numero di connessioni sinaptiche, traggono origine le caratteristiche individuali (il carattere) e l’autonomia del comportamento.
Gli organismi inferiori, infatti, sono in larga parte vincolati a risposte stereotipate e istintuali, nei modi dell’attacco/fuga.
Nell’uomo, viceversa, con l’aumentare della complessità, si riduce l’utilizzo delle risposte istintuali (che restano comunque presenti e hanno una loro valenza adattiva) rispetto alle risposte più variegate, più articolate, in funzione del grado di complessità delle strutture del cervello di ognuno.
Questo paragrafo non vuole essere l’elogio del funzionamento razionale del nostro agire, ma semplicemente una descrizione dello stato delle cose, almeno a livello fisiologico, con un’accentuazione – per quello che riguarda la pedagogia dello sport e la prestazione agonistica – del fatto che:
- non ogni apprendimento è cosciente e l’elaborazione delle informazioni, il processo di crescita, si verificano in molti casi a prescindere dal nostro grado di consapevolezza attuale;
- è comunque rilevante, ai fini di tale elaborazione e di tale processo, che le informazioni vengano in qualche modo recepite, ci attraversino e operino in noi;
- si abbia fiducia in questo genere di processi e si conceda del tempo a ché nuove acquisizioni, scelte, risultati attesi, emergano a tempo opportuno.
L’abbozzo evolutivo tracciato indica il livello di libertà dagli istinti degli esseri usualmente definiti superiori, rispetto a quelli inferiori. Un uomo ha maggiore discrezionalità di scelta rispetto a un cane, che ne ha di più di una rana, che ne ha di più di un lombrico e via dicendo.
Tale idea evolutiva è la premessa del dibattito sulla presunta contrapposizione tra una mente in grado di elaborare le informazioni, e una mente in grado di produrre significato (neuro-estetica). L’una, infatti, non può esistere senza l’altra.
Vediamo come funziona.
- L’apprendimento
Cominciando dall’informazione, diciamo che essa proviene dal mondo esterno attraverso i sensi. Ma l’informazione fornita dai sensi non rispecchia fedelmente il mondo, bensì lo interroga, cercando risposte specifiche a in un certo senso chiuse. I sensi, in altre parole, chiedono se quella cosa sia giallaoazzurra, se una linea sia retta o verticale, orizzontale o inclinata, se quel volto sia sorridente o triste, ecc.
La mente umana, quindi, si procura l’informazioneattraverso i sensi, ma è già definito in gran parte che cosa sia di suo interesse e che cosa no. Per questo riusciamo a udire i suoni entro una certa frequenza, e a percepire la luminosità in un dato spettro. Perché le altre sensazioni/informazioni “non interessano” alla nostra mente.
La nostra mente opera su un piano di economia, e proprio per questo è tendenzialmente convergente e potremmo dire “ottusa”.
D’altro canto, le sensazioni in natura non esistono. Esse non sono altro che delle porzioni di realtà modellate dai sensi. E sono, dunque, gli organi di senso che trasformano gli stimoli in sensazioni, la qual cosa vale per tutte le specie viventi.
2. Il senso della vista
Se prendiamo il senso della vista come esempio, diremo che esistono decine di segnali diversi che vengono analizzati separatamente ma in parallelo: alcuni di questi portano informazioni sullo stato di illuminazione dello spazio o dell’oggetto considerato, altri sui colori, altri sulla profondità, altri ancora sulla tridimensionalità e via dicendo.
Le informazioni provenienti dal mondo circostante, allora, nascono sempre come informazioni parallele che, tuttavia, vengono trasformate in informazioni seriali, allorquando arrivano alla coscienza.
3. La coscienza come “clessidra”
La stessa coscienza, scrivono Edoardo Boncinelli e Giulio Giorelli in un lavoro pubblicato nel libro “Immagini della mente” di Giovanni Lucignani e Andrea Pinotti, è come la strozzatura della clessidra che rappresenta il momento esatto in cui le informazioni parallelizzate diventano seriali per un attimo, prima di tornare parallele, perché catturano l’interesse della mente. Quello è il momento (mai automatico e sempre irreversibile) in cui riceviamo conferme o smentite circa le nostre aspettative.
- Se le aspettative sono confermate, la bolla di coscienza resiste e le informazioni vengono inviate alla memoria, in modo parallelizzato, con grande efficacia.
- Se c’è discrepanza tra aspettative e risultati, la bolla collassa e le informazioni vengono inviate alla memoria con scarsa efficacia.
Da qui inizia un nuovo presente, una nuova avventura interpretativa.
4. Apprendimento implicito
Qual è la conclusione del nostro discorso? Che stimolare i sensi aiuta ad apprendere con le immagini che sono informazioni complete e parallelizzate che:
- stimolano la vista ma anche gli altri sensi,
- aiutano la memorizzazione e l’ideazione,
- sono creative,
- suscitano emozioni.
La parallelizzazione delle informazioni, che arrivano alla coscienza al livello della strozzatura della clessidra, incontra l’interesse della mente. Nasce così l’apprendimento implicito.
5. Apprendimento per immagini
Nell’esperienza comune, muoversi in ambienti noti o familiari, non richiede alcuno sforzo di memoria. È, infatti, un processo automatizzato, una conoscenza implicita che si riferisce a un apprendimento pregresso che appartiene e apparterrà al nostro bagaglio di informazioni.
Il motivo è che assimiliamo informazioni molto prima e meglio se possiamo vederle. Il potere della vista, sia nel senso fisico che nel senso lato di immaginare di vedere qualcosa con la mente, viene, infatti, spesso sottovalutato negli apprendimenti.
Eppure la maggior parte delle nostre azioni coscienti si basa su ciò che vediamo; il che fa della vista il senso più sviluppato, sia per effetto dello spessore e della quantità dei nervi che collegano gli occhi al cervello, sia per la grande estensione delle aree cerebrali dedicate alla visione, che è molto più ampia di quelle dedicate agli altri sensi.
Grazie a questa caratteristica, un apprendimento ottenuto vedendo diventa patrimonio implicito della conoscenza e viene riportato con grande facilità alla superficie della memoria, proprio perché la vista ha la capacità di automatizzare l’archiviazione delle informazioni in modo che siano più facilmente disponibili rispetto a quelle udite o affidate ad altri canali sensoriali.
Certo, ogni persona apprende prevalentemente attraverso un senso privilegiato: la maggior parte degli esseri umani attraverso la vista; altri attraverso l’udito, mentre una minoranza attraverso le percezioni
- tattili,
- corporee,
- sensoriali,
- in modo residuo olfattive.
6. Apprendimento multisensoriale creativo
Non esiste, tuttavia, un senso migliore degli altri. E l’apprendimento migliore è sempre quello che coinvolge più sensi contemporaneamente.
Cioè, se assisto a una presentazione, ascolto le parole e vedo poche immagini che riassumono visivamente il concetto, capisco prima, meglio e imparo di più.
Se quella data esperienza è anche emozionante (il relatore modula opportunamente il tono della voce, sorride, mi coinvolge con un racconto con cui mi identifico), ricorderò più a lungo. Le persone – scrive Mariano Sigman – dimenticano facilmente quel che viene detto loro, ma non dimenticano come lo comunichiamo.
Per questo io parlo di apprendimento multisensoriale: perché il coinvolgimento di più sensorialità parallelizza le informazioni e le rende più coerenti con le aspettative della mente di chi le riceve. A maggior ragione se sono corredate da informazioni emotive.
7. Sensi ed emozioni
Che la corteccia visiva scambi continuamente informazioni con i circuiti limbici, dove hanno origine le emozioni, è, infatti, un’evidenza scientifica. Prova ne sia che, se abbiamo paura, possiamo scorgere forme che non esistono nella realtà ma che vengono prodotte dalla nostra mente, proprio in virtù dell’associazione di informazioni diverse.
Mettere insieme, dunque, informazioni ascoltate con altre percepite visivamente o visualizzate, ed emozioni correlate, crea l’apprendimento migliore.
II Parte.
La curiosità crea un ponte fra la sensazione di gratificazione, legata alla ricerca di informazioni, e la memoria. In questo modo funge da acceleratore dell’apprendimento.
In un recente studio, pubblicato su Neuron con il titolo di The Psychology and Neuroscience Of Curiosity, Celeste Kidd e Benjamin Y. Hayden, Neuroscienziati dell’Università di Rochester a New York, evidenziano come tale atteggiamento verso le cose sia alla base delle capacità cognitive essenziali per apprendere, per prendere decisioni e per la stessa salute, sia fisica che mentale. Cfr. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4635443/
- Curiosità e creatività
Secondo i ricercatori, alle origini della curiosità, che definiscono come uno stato guida verso la ricerca dell’informazione, c’è sempre un atteggiamento creativo. Benché essa non sia facile da definire, né da misurare, dato che gli elementi che la nutrono, le modalità con cui si manifesta e gli esiti successivi alla sua soddisfazione sono molti e sempre diversi.
Per questo, lo studio della curiosità, specie con l’aiuto di esperimenti standardizzati in laboratorio, diventa complicato, al punto che il focus dell’osservazione si sposta più facilmente verso abilità e comportamenti affini a essa, come l’esplorazione, la motivazione, il divertimento e il gioco.
Sergio Agnoli, psicologo e ricercatore del Marconi Institute for Creativity (MIC), afferma che la curiosità, in quanto esperienza di disposizione personale verso nuove possibilità, è un fenomeno complesso che si esprime come energia, spinta motivazionale per cercare qualcosa di nuovo, che va oltre ciò che si sta facendo nel momento preciso.
Perciò, è più affine alla Apertura mentale, che è uno dei cinque tratti fondamentali della personalità così come descritta nella teoria dei “Big Five”, tipica della creatività.
Quello che sappiamo della curiosità, tuttavia, è che può essere, indifferentemente, specifica e intenzionale, cioè diretta verso un oggetto o un settore determinato della conoscenza, oppure generica e diversificata, quando, ad esempio, il desiderio che la alimenta è più esteso o legato a un’esplorazione cognitiva o percettiva più ampia.
In termini scientifici, la curiosità è frutto di una spinta interna e disinteressata, nei modi dell’eccitamento cognitivo (Arousal), che ci guida verso l’ignoto e che non è finalizzata a uno scopo.
Si esprime, quindi, come un desiderio di conoscenza non orientato verso un obiettivo specifico, più simile, in questo senso, alla voglia di scoperta, di dare un senso a quello che si fa e all’esistenza stessa, come afferma Giuseppe Pellegrino, Professore di Neuroscienze Cognitive all’Università di Bologna.
Il quale, a ogni buon conto, mette in guardia dai possibili rischi che reca con sé la curiosità: se, infatti, da una parte, ha valore positivo, in quanto fonte di motivazione, dall’altra, non essendo necessariamente finalizzata, un eccesso di curiosità può avere effetti collaterali negativi, come far perdere di vista gli obiettivi principali e disperdere energie.
2. Curiosità e intelligenza emotiva
Tuttavia, nell’esperienza quotidiana, la curiosità è più facilmente accostata alla ricerca di informazioni orientate a uno scopo, spesso per effetto del condizionamento di fattori esterni, come l’approvazione degli altri o l’ottenimento di un determinato risultato.
Questo dato, peraltro, sottolinea l’importanza, nell’educazione e in tutte le attività a valenza educativa, di porre l’accento sui talenti e sulle caratteristiche individuali dei ragazzi, sulle unicità che accendono le loro passioni.
Il che fa della curiosità un’estensione del talento e, talvolta, perfino un detonatore o un amplificatore.
In questo senso, spiega Agnoli, la curiosità è una caratteristica dell’intelligenza emotiva, assimilabile a una torta i cui ingredienti sono tutti gli elementi emotivi della personalità; che, contribuendo a migliorare talune performance degli individui, permettono di sopperire a eventuali carenze legate all’intelligenza cognitiva.
Ad esempio, in una situazione fallimentare, le persone emotivamente più intelligenti hanno la capacità di reinvestire le proprie energie alla ricerca delle soluzione utili a produrre cambiamento. Per contro, persone meno dotate in questo senso, più rigide strutturalmente, restano ancorate all’analisi critica del problema, finendo invischiate a tal punto in esso da non trovare vie d’uscita.
3. Curiosità e piacevolezza
Altro aspetto a cui sembra legata la curiosità è la resilienza.
L’osservazione fa rilevare come le persone curiose siano più capaci di trasformare le difficoltà in punti di forza.
Davanti alle sconfitte e ai fallimenti, le persone curiose, maggiormente dotate di intelligenza emotiva, esprimono capacità reattive perfino superiori di quelle messe in campo davanti ai successi e alle gratificazioni.
È quello che succede, ad esempio, all’interno di contesti stimolanti, che non inibiscono il desiderio di scoperta e il talento, che riconoscono e premiano l’apertura mentale, il valore della conoscenza e la sete di sapere, laddove la curiosità, come caratteristica del singolo individuo, viene sostenuta e incoraggiata.
Secondo lo psicologo statunitense George Loewenstein, in alcuni casi la curiosità può essere associata non alla piacevolezza e al gradimento (non ha una funzione dopaminergica), ma all’esatto contrario, allorquando essa viene avvertita come sensazione di vuoto da colmare e come impellenza di un’azione urgente da compiere. Il che trasforma la curiosità in “vuoto cognitivo” che deriva dalla percezione di una mancanza di conoscenza.
Si tratterebbe, secondo questo studio, di un caso in cui la ricerca delle informazioni viene equiparata alla ricerca del cibo da parte di una persona affamata: l’informazione acquista un valore simile a quello che si associa ai bisogni primari e viene trattata di conseguenza dal cervello.
4. Curiosità e apprendimento
La funzione primaria della curiosità è quella di motivare all’acquisizione di conoscenze e all’apprendimento e, per questo motivo, coloro che imparano spinti da curiosità spesso sono in grado di capire e ricordare più a lungo le nozioni acquisite.
Come dimostra uno studio di neuroimaging del 2014 apparso su Neuron, quando l’apprendimento è alimentato dalla curiosità si attivano regioni cerebrali come il nucleo accumbens che produce la dopamina, implicata nel meccanismo della ricompensa, e l’ippocampo, area chiave della memoria, che aiuta a trattenere più a lungo le informazioni proprio per effetto delle sensazioni piacevoli a cui queste ultime si legano.
Il che spiega che la curiosità ha una forte componente emotiva che la colloca tra i principi fondamentali di una didattica creativa e dell’intelligenza emotiva.
Pubblicazione d’interesse: Enrico Clementi, Gli apprendimenti. Teorie, strumenti e prospettive per “imparare ad apprendere”